Assaggi di romanzi inediti - da "GIGOLÓ PER CLIENTE UNICA": prima metà del capitolo 3
Creato il 22 marzo 2013 da Zioscriba3.
Gli incisivi della Jena
Ho avuto sedicianni, e ne sono uscito vivo. Il calendario diceva 1983, ed eravamo noi la fauna tracimata dagli steccati del liceo di Cuviate all’una meno venti, noi la sfilacciata e indolente processione che traversava i binari un quarto d’ora più tardi, come giocando alla roulette russa col sopraggiungere del treno. Non ci si crederebbe: già stanco di tutto, della vita avevo piene le tasche, ma ero solo un ragazzino. L’83, e ogni giorno feriale messo lì per dispetto dagli dèi dispettosi ci si trascinava placidi e afflitti lungo quell’ultimo tratto in pavé. Ci si inerpicava soppesando la sete e le borse di merda su per la scala col corrimano roso dalla ruggine. Ci si piegava per sgusciar sotto alla sbarra biancorossa del passaggio a livello. E ci si avventurava in apnea nell’approssimarsi di un brivido che non diventava paura, o forse sì: la curva era cieca e muta, e a vomitare la motrice dalle fauci d’acciaio sarebbe stata, da un momento all’altro, una tetra galleria. Abitudine pericolosa ma obbligata, tutt’altro che smargiassa: il treno proveniente da Varese fermava sul lato opposto, non esistevano sottopassaggi, e rimanerci non c’era ancora rimasto nessuno.
Sedicianni: ne sono uscito senza suicidarmi, e ancora non ci credo.Settembre, e il branco che siamo, a prima vista uniforme, è quanto di più variegato si possa immaginare. Bambini sciamano spintonandosi allegri nella brezza di soffi lacustri al profumo d’uva: sono quelli del primo anno. I secondini li riconosci subito. Volendo sembrare grandi e seriosi, è facile coglierli a coppie filosofeggianti o a coppiette sospiranti. Queste ultime solo etero, come si conviene – stucchevoli, nella loro pedissequa obbedienza, e rese più pacchiane dall’essere teenagers: con tanta dovizia di assaggi e brividi omoerotici a portata di cuore, per la riproduzione animale c’è tempo. O no? Quelli di quarta e di quinta sembrano già uomini fottuti dalla vita. Tra loro c’è gente con la barba, e c’è perfino un tale, patetico e buffo, che per darsi un tono fuma la pipa. Fa parte di un quartetto che chiamiamo “i segalitici”. Noi che facciamo la terza siamo i più pecorecci e compatti. Più spossati dei primini, più numerosi dei quintini. È stata la nostra classe, due anni fa, a inaugurare una monca e derelitta sezione C. L’unica commistione di gruppi è data dalla presenza fra noi del quattordicenne Alessandro. Gliel’ho concesso io, il diritto di cittadinanza. La cosa è sotterraneamente malvista: sono ancora tempi di moderato nonnismo, e “far saltare” quei primini del cazzo continua a essere, specie nei giorni inaugurali, qualcosa più di un modo di dire. Ma posseggo quel non so che chiamato carisma, e aiuto troppa gente in certe ostili prove scritte, perché mi si possa rinfacciare a brutto muso la protezione del fanciullo. Più o meno tutti lasciano correre. L’unico che si sia provato a obiettare qualcosa è stato Jekko Macho Col Cappellino Americano Da Pirla. Dagli altri, di tanto in tanto, un timido insinuare ("Ma... quel primino...?") o una debole tirata d'orecchie ("Dovresti stare di più con noi, con quelli della tua età").
Chi sembra poco intenzionato a correre, per il momento, è il treno. Il suo ritardo è regola. Forse è per via del ritardo che sui binari non è stato ancora maciullato nessuno. La puntualità può uccidere. Oggi il mio protetto è furibondo per un compito in classe andato a ramengo. Si aspettava un 7. Si è beccato un 2. «Jena puttana», borbotta con quelle labbra che dovrebbero solo dar baci, o al massimo lasciarsi un po’ infiammare dalla polpa dei fichi stramaturi. «Dice che ho copiato l’articolo di un giornale».«E invece?»«Invece… boh… sì, l’ho un po’ scopiazzato. Ma quella zoccola mi ha dato 2 perché le sto indigesto».
Alessandro ce l’ha con Federica Sarti di Italiano. Unica insegnante su livelli di decenza di tutto l’ignorantificio, è stata a malincuore battezzata “Jena” dalla Commissione Soprannomi. Cioè da me. Sono io che appioppo ‘sti nomignoli, veri marchi indelebili. Appena arriva un prof nuovo, tac!, mi riunisco, mi consulto con me stesso e delibero. Le mie decisioni sono legge. A detta di tutti, il mio capolavoro è il Visòdano di storia dell’arte: grazie all’accento ingannevole, sulle prime non lo capisci, che vuol dire faccia di culo. La Jena è Jena per quel sorrisetto sardonico che le screpola il volto quando sta per stangar duro. Ogni volta, prima di stampare sul registro un 4, o di elargire un Impreparato, la Jena sghignazza, beffarda e carogna. Sghignazza e trema. Non può evitarlo. È più forte di lei. Con me non ci prova nemmeno. Scelto lo scientifico per diventare ingegnere come lo zio Oswald di Brema, ti arrivo in terza e l’Italiano è l’unica materia che riesca a sopportare. Se c’è una cosa che ho capito è che piuttosto che fare ingegneria preferirei buttarmi sotto quel treno, e sul conto della Jena non ho niente da ridire. Solo questione professionale se ho marchiato anche lei. Ed è solo perché sono innamorato stracotto degli occhi neri di Alessandro se resisto qui, mansueto, ad ascoltare i suoi insulti che durano ormai dalla fuga dalle aule, mentre un soffio appena percettibile sembra adesso scaturire dai solchi delle traversine, e sfrusciare via poco più che rasoterra in un turbinio riavvolto su sé stesso, quasi fosse il respiro mandato avanti dal treno ancor lontano. Qua e là, manifesti pubblicitari strappati o scarabocchiati raccontano di una stazione frequentata pressoché in esclusiva da questa irrequieta fauna che siamo noi.
Federica Sarti doveva aver girato da non molto la boa dei quaranta, ma dimostrava l’età di una nonna. Non aveva cura del suo aspetto. Non le importava. Spendeva nulla in cosmetici e messimpiega, poco più in abbigliamento da upim, e quasi tutto il resto in libri di narrativa. Che amava poi recensire per noi in chiusura di lezione. Non doveva comprare meno di tre romanzi nuovi a settimana. Ripensandoci adesso, più che Jena avrei dovuto chiamarla Erasma, in onore di Erasmo da Rotterdam, le cui priorità di spesa somigliavano molto alle sue. Per i miei compagni era solo una zitella inacidita, una tardona che leggeva per l’incapacità di vivere, che stangava duro per l’impossibilità di scopare. Io ero uno dei due o tre della classe interessati ai suoi consigli, sempre sommersi dal montante brusio pre-campanella (non sgridava mai nessuno ma era vendicativa, chi faceva più casino se lo segnava, e lo stangava il giorno dopo), e per afferrarli dovevi drizzar bene le antenne. Venne da lì una delle mie prime letture adolescenziali, spassosissima. Esercizi di stile, di Raymond Queneau. Dicevano tutti che portasse la dentiera. La Sarti, non Queneau. Aveva il tic di questa smorfia molto larga, a denti serrati, e nel farla si passava il pollice e l’indice distesi ai lati della bocca, dall’alto verso il basso, come un uomo che si alliscia il pizzetto, e in questa smorfia digrignava denti troppo bianchi e troppo uguali, secondo alcuni, per essere veri, e inoltre si diceva che il tic, la smorfia, originasse proprio da un senso di fastidio per l’ingombro della protesi.Se devo dirla tutta, a me già fin da allora la Jena m’intrigava. Sul serio. Avevo certe fantasie sulla Jena Federica che non avrei ammesso nemmeno sotto tortura. Non che fossi un gerontofilo, non lo ero proprio per niente, e in genere sfogavo le mie intemperanze ormonali pensando quello a cui pensavano tutti – pensavo a Heater Parisi, a Sukia, a Zora la Vampira, pensavo ad Alessandro, a mia cugina Gloria, visualizzavo Carriolina di Monaco, Rita Dalla In Chiesa, la sorella del compagno di banco, le amichette delle medie, e poi Tina Turner, Nadia Cassini, Lilly Carati, il compagno di banco, Minni Tettaporca, me stesso vestito da troia, il/la cantante degli Sweets. Eppure quella donna non so come mi attizzava.
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