Anna Lombroso per il Simplicissimus
Una volta si diceva che gli americani ci avevano colonizzato l’inconscio: cinema, letteratura, architettura, consumi, pubblicità, potenza e impotenza, dominio e innocenza, ingenuità e arroganza. Oggi dobbiamo ammettere che il nostro inconscio è occupato per non dire posseduto da Berlusconi. Compreso anche l’eros di qualcuno, particolarmente emulativo seppur sprovvisto di analoghi mezzi.
E d’altra parte lui, i suoi affini, briatore, fede, corona, la loro spavalda spregiudicatezza nel testimoniare con gli atti che stare nel cerchio magico dell’immagine è tutto e la responsabilità è un appannaggio di sfigati e nullatenenti, l’impunità che sembra derivare meccanicamente da questa forma di sovranità fondata dalla loro onnipresenza intrusiva, l’esteriorità che diventa interiorità, la spettacolarizzazione della mediocrità e l’abitudinarietà all’eccesso, tutto questo concorre allo stravolgimento della realtà, in un’autobiografia collettiva fatta di inganni.
Uno stravolgimento che è anche semantico. Me ne accorgo quando uso alcune parole nel conversare o nello scrivere. C’è una evidente sorpresa per l’utilizzo, che per alcuni suona provocatorio, di termini che esprimono concetti universalmente considerati obsoleti arcaici e risibili. E siccome la provocazione mi accende ci sono volte che addirittura pronuncio la parola patria o nazione invece di sistema italia, solidarietà invece di commiserazione, pensiero al posto di azione, disobbedienza invece di consenso.
Ci ho pensato a proposito dell’appuntamento annuale con la coscienza, la Marcia che prende il via da Perugia verso Assisi e che quest’anno compie 50 anni. Nei confronti della quale ho sempre nutrito una certa occhiuta e sospettosa diffidenza per l’eccesso di anime belle e di pacifismo, di buoni sentimenti ecumenici ma anche di primato confessionale, rischioso in tempi di imposizione di un’etica pubblica replicata su quella della chiesa – che certo Assisi non è stata scelta per via di Giotto -, per via di quella che mi sembrava una certa giuliva accettazione dei mali del mondo, sia pure accompagnata da un encomiabile impegno. Quell’accettazione che diventava ricetto e accoglienza per tutti quelli che in 50 anni hanno partecipato per mostrarsi, per mettersi in evidenza o per darsi una rinfrescatina rapida alla coscienza con la scarpetta multicolore mentre votava le missioni “di pace”.
Oggi però ci ho ripensato. 50 anni sono tanti e nella marcia c’è gente che la fa da 50 anni e che, se ne conosco qualcuno, la fa guardando in alto, verso il gran sole carico d’amore, anche se con una certa fatica. E c’è poco da fare gli schizzinosi se qualcuno usa e agisce in un modo che sembra retorico solo a chi è sprofondato nell’anima opaca del paese, irriflessiva, conformista, quella che rifiuta la pesantezza dell’essere preferendo l’aerea inconsistenza del sembrare, la fatica del giudicare e dell’essere giudicati e che distoglie lo sguardo dall’impervio orizzonte della responsabilità, in un solipsismo auto assolutorio ben radicato dentro la favola degli italiani brava gente.
Quante volte certi marciatori – da maratona in poi – si sono sentiti dire che sono fuori dal mondo. È probabile infatti che abbiano i “piedi ben piantati in una nuvola”, che siano visionari. Ma è solo perché vedono meglio e guardano ancora a certe utopie, non quelle edificanti di una narrazione di buoni sentimento cui seguono cattive azioni: rifiuto, iniquità, respingimenti, lesione di diritti, egoismo, disprezzo per scelte e inclinazioni non condivise dal moralismo comune e conformista.
È che oggi pace in un mondo pieno di tanti cantieri di tante guerre – quelle solite per potenza fame prevaricazione profitto religione motivi dinastici e quelle nuove ammesso che ci sia qualcosa di nuovo in questa pratica così orrendamente umana – significa molte cose. Significa armarsi contro l’iniquità, l’abuso delle risorse e del territorio, la sopraffazione esercitata da un pensiero unico che è quello del profitto, la prepotenza del mercato e l’oligopolio di certe ricchezze usurpate ma fortissime, la limitazione dei diritti di cittadinanza nel mondo a chi si adegua, consuma, ubbidisce. Significa ascoltare l’urlo di chi è disperato e esige futuro e che ormai non vive in geografie lontane dalla nostra. Abbiamo bisogno di pace anche qui, perché non c’è pace senza giustizia e democrazia e legalità. E pare proprio che sia il momento di scendere in guerra per riprendercele.