Che alcuni politici ritengano di godere dell’immunità ortografica è un sospetto insinuato tempo fa da Gian Antonio Stella, in un articolo che metteva alla berlina “l’onorevole ripetente” del Pdl Michaela Biancofiore, già nota per un criptico “mi vogliono distrutta, annientata, denigrata, scanzonata”. Il Parlamento è però lo specchio del Paese e i liberi interpreti della lingua italiana si trovano ovunque. Oltre agli errori da matita blu, esiste un campionario di parole, locuzioni, modi di dire di per sé corretto, o comunque tollerato, che induce comprensibilmente alla diffidenza e alla perplessità nei confronti di chi vi fa ricorso.
Partiamo da “assolutamente” (assolutamente sì; assolutamente no), una risposta secca e rinforzata in quest’epoca di labili certezze. A volte pleonastica. Di sicuro irritante. “Vieni al cinema?”. “Assolutamente no”. Come dire: “se me lo chiedi di nuovo mi offendo”. Un intercalare molto diffuso, equiparabile al “cioè” di qualche anno fa, finito gloriosamente in soffitta. La crociata contro l’utilizzo di “piuttosto che” con significato disgiuntivo, definito “inammissibile” dall’Accademia della Crusca, è invece una battaglia persa. Impossibile riuscire ad imporsi sulla schiera di conduttori, ospiti, concorrenti che vi ricorrono una frase su due. L’uso di “assolutamente” e “piuttosto che” per alcuni è chic. Beati loro. Sono gli stessi che concludono un elenco con “quant’altro”. Un modo per non dire nulla – o dire poco – lasciando il dubbio che di un determinato argomento si sappia tutto. Un approccio sbrigativo, superficiale, che mette al riparo da eccessive responsabilità. “Niente di che” vale per quel che sostiene (niente); “nel senso che” apre a considerazioni non richieste sul nulla. “Ho cenato, nel senso che avevo fame”. Grazie dell’informazione.
L’abuso del vezzeggiativo ha raggiunto dimensioni epidemiche. Da “cosina” a “sciarpettina” (più tutte le varianti fashion), fino all’intramontabile “attimino”, a volte sostituito dall’urticante “secondino”, è il festival delle smancerie. Poi ci sono alcune parole che, utilizzate al di fuori del loro habitat naturale, per essere digerite richiedono dosi massicce di bicarbonato. Pochi esempi: “interfacciarsi”, tratto dalla forma sostantivata (interfaccia) familiare agli ingegneri elettronici, indica impropriamente una relazione tra due soggetti; “attenzionare”, verbo orribile che sostituisce la locuzione “sottoporre all’attenzione”, analogamente ad “efficientare” (rendere efficiente) e “appuntamentare” (prendere un appuntamento); “inerzia”, utilizzato da molti telecronisti sportivi per descrivere situazioni (“si è spostata l’inerzia della partita”) che con l’inoperosità non c’entrano nulla. Pensavo che fosse finita l’epoca della “misura in cui”, lessico da assemblea sessantottina. In un libro scritto da un luminare di filosofia politica, sto invece constatando, con enorme stupore, la sua riesumazione, che si accoppia all’abuso dell’avverbio “parimenti”, altro reperto archeologico.
Il linguista Tullio De Mauro ha lanciato un preoccupante allarme sull’aumento dell’analfabetismo di ritorno: “il 71% della popolazione si trova al di sotto del livello minimo di lettura e di comprensione di un testo scritto di media difficoltà”. D’altronde, alcune strutture grammaticali e sintattiche elementari sono addirittura ignorate da molti studenti universitari. La lingua s’impara solo se si leggono buoni libri, mentre la dipendenza televisiva e tecnologica sta uniformando verso il basso il livello della conoscenze. Per questo, invece di affossarli, sarebbe il caso di rilanciare gli studi umanistici. Assolutamente.