Se confermata, è una di quelle scoperte che costringeranno ad aggiornare Wikipedia. Dove alla voce condrule (consultata nell’edizione inglese, in italiano manca) leggiamo ancora oggi che si tratta di sferette tondeggianti presenti nelle condriti, e fin qui nulla da eccepire, le quali sarebbero a loro volta i mattoncini – the building blocks – del nostro sistema planetario. Ebbene, potrebbe essere andata proprio al contrario: secondo quanto ricostruito da un team di planetologi del MIT e della Purdue University, coordinati da un’autorità del settore qual è Jay Melosh, sarebbero infatti i pianeti all’origine delle condrule, e non viceversa. Per la precisione, l’impatto fra planetesimi di grandi dimensioni, nell’ordine dei 10 km di diametro.
L’origine delle condrule è un enigma di lunga data. È da più d’un secolo che gli scienziati analizzano questi grani di dimensioni millimetriche, presenti delle meteoriti, senza mai riuscire a giungere a una conclusione convincente e condivisa circa la loro formazione. Fra le ipotesi più recenti, persino quella che a generare le alte temperature necessarie a liquefare la roccia siano stati i campi magnetici presenti nel disco protoplanetario primordiale.
Ebbene, stando al modello messo a punto dal team di Melosh, descritto sull’ultimo numero di Nature, non c’è bisogno di spingersi a tanto: a spiegare la loro formazione e la loro abbondanza sarebbero sufficienti impatti fra protopianeti avvenuti durante i primi cinque milioni di anni d’accrescimento planetario. Se l’impatto avviene a velocità di almeno 2.5 chilometri al secondo, si legge nell’articolo firmato da Brandon Johnson e colleghi, il materiale roccioso raggiunge, nella regione circostante la superficie di collisione, temperature sufficienti a fondere la roccia e a espellerla sotto forma di getto liquido. Getto che a sua volta dà origine a goccioline di scala millimetrica, le quali si raffredderebbero poi a una velocità compresa fra i dieci e i mille gradi all’ora, compatibilmente con quanto richiesto per produrre condrule come quelle effettivamente osservate nelle meteoriti.
«Comprendere il processo alla base della formazione delle condrule è un po’ come guardare attraverso il buco della serratura: anche se non ci permette di vedere tutto ciò che accade dietro alla porta, ci offre una visione chiara di una porzione dell’altra stanza, che nel nostro caso equivale a uno sguardo agli albori del Sistema solare», spiega Melosh. «Ciò che abbiamo riscontrato è che il modello basato sugli impatti descrive assai bene ciò che sappiamo di questo materiale unico e del Sistema solare primordiale. Dunque, al contrario di quello che ritiene la maggior parte degli esperti di meteoriti, gli asteroidi non sono i resti del materiale dal quale hanno preso forma i pianeti, e i grumi di condrule non sono a loro volta prerequisiti per un pianeta».
Una conclusione, questa, che andrebbe a intaccare non poco il ruolo fino a oggi ricoperto dalle meteoriti nello studio della formazione planetaria. «Le condriti sono state ritenute a lungo un materiale simile a quello che ha dato origine ai pianeti. Quel che emerge dal nostro studio è invece che le condrule potrebbero non essere altro che un sottoprodotto degli impatti fra oggetti di una generazione precedente», osserva infatti David Minton, della Purdue University, fra i coautori dell’articolo, «e le meteoriti potrebbero dunque non essere così rappresentative del materiale dal quale si sono formati i pianeti».
Il prossimo passo, dice Minton, sarà ora quello di studiare in che modo questo processo di formazione delle condrule potrebbe eventualmente trovare posto in un nuovo modello di formazione planetaria: quello noto come pebble accretion, in cui un ruolo cruciale è giocato dal gas sottratto alla nebulosa protoplanetaria.
Per saperne di più:
- Leggi su Nature l’articolo “Impact jetting as the origin of chondrules“, di Brandon C. Johnson, David A. Minton, H. J. Melosh e Maria T. Zuber
Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Malaspina