Riflessioni in un monastero francescano
di Marco Cagnotti
“Per me l’esistenza di Dio non è un problema. Per me è un’esperienza”: ascolto questa clarissa che mi sorride al di là della grata, in un monastero francescano fra le colline umbre. La conosco da anni, ma ancora riesce a stupirmi. Non per ciò che dice, ma per il modo in cui lo dice: sereno, tranquillo. E un po’ la invidio. Solo un po’. E mi chiedo che cosa ci faccio qui.
Così la mia memoria corre verso quella mattina di giugno del 1982, quella lunga passeggiata con un amico, quella discussione sui massimi sistemi: la prima volta in cui dissi con chiarezza, a un’altra persona ma soprattutto a me stesso, “Dio non esiste”. Certo non sono diventato ateo quel giorno, perché era una convinzione che stava maturando dentro di me da tempo. E di sicuro non le era estranea la morte per tumore del più caro dei miei amici, pochi mesi prima. Tuttavia fu in quel giorno di inizio estate che per la prima volta ebbi il coraggio di fare il mio outing: “Io sono ateo”. I miei argomenti erano sia razionali sia emotivi.
Nulla in ciò che osservavo nel mondo intorno a me mi induceva a pensare che fosse necessario postulare l’esistenza di un Creatore. Com’è ovvio, ci sono molti fenomeni che la scienza ancora non sa comprendere compiutamente: dalla causa (ammesso che ne esista una) del Big Bang fino all’origine della vita. Però invocare una volontà divina per spiegarli significa servirsi di un Dio “tappabuchi” destinato a spostarsi sempre un po’ più in là, sempre oltre il confine oltre il quale la luce della ragione scientifica non è ancora giunta a proiettarsi. Un ben povero Dio.
D’altro canto non di sola ragione era fatto il mio ateismo. A chi mi accusava di non comprendere le “ragioni del cuore” di chi crede rispondevo che il mio, di cuore, mi spingeva proprio nella direzione opposta. Il problema della teodicea e della sofferenza innocente suscitava in me una ribellione viscerale, la ribellione di Ivan Karamazov quando afferma: “Non è che non accetti Dio, Alioscia: ma semplicemente Gli restituisco, con la massima deferenza, il mio biglietto”. “Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo”, ha scritto Voltaire. “Se Dio esistesse, bisognerebbe distruggerlo”, lo ha corretto Michail Bakunin. Sicché nella mia ribellione non c’erano razionalità né riflessioni filosofiche e neppure spiegazioni scientifiche: erano queste, invece, le mie “ragioni del cuore”.
Dopo 28 anni dal mio outing, nulla è cambiato. E tutto è cambiato. Sono sempre ateo, e lo sono per gli stessi motivi di allora. Tuttavia sono un ateo diverso. Sedicenne, ero un ribelle ingenuo e incolto. Entravo in chiesa durante la Messa per scrutare i credenti e, nel mio intimo, disprezzarli. “Io sono libero”, sogghignavo fra me e me. “Libero dalle pastoie della superstizione, dalle catene che imprigionano il libero pensiero e che questi sciocchi superficiali si trascinano dietro fin dal Medioevo”. Lo sciocco superficiale, naturalmente, ero io. Ma non stupido. Non mi ci è voluto molto per capire che sì, certo, Dio non esiste, però le domande rimangono. Ormai sembrano quasi luoghi comuni: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”. Riassunte in una sola: “Perché?”. Ovvero: “Che cosa ci sto a fare qui, che senso ha la mia vita?”. Ecco: il senso, appunto. Loro, inginocchiati di fronte al Mistero, almeno un senso se lo davano, anzi lo prendevano dalla Rivelazione. Ma io? Io… niente. Il mio senso me lo dovevo costruire da solo. Così per qualche anno il mio è stato un ateismo insoddisfatto, quasi triste. Mi sentivo monco. Avrei voluto credere, ma non potevo. Poi ho capito tre cose.
Anzitutto che la ricerca del senso è una sfida improba. E che, come tale, possiede un’intrinseca, grande nobiltà. Non c’è una strada segnata: il mio cammino me lo devo tracciare io, giorno dopo giorno, con i miei mezzi modesti. Ma miei, e questo è l’importante. Come essere umano sono fragile, limitato nel tempo, nello spazio e nelle capacità. Eppure con queste miei mani e questo mio cervello posso, anzi devo fondare un mio senso esistenziale. Sarà sempre un work in progress, una verità relativa costantemente aperta alla revisione e al ripensamento, ma sarà la mia verità. Non sarà mai una Verità che un Dio mi cala dall’alto. Ecco la nobiltà, in senso leopardiano, di questa sfida. “Il faut imaginer Sisyphe heureux”, scrive Camus.
Fattomi carico di questa sfida, ecco il secondo passaggio: mi sono fermato a riflettere sulla mia negazione di Dio. Mi sono chiesto chi o che cosa stavo negando. E quasi subito ho raggiunto la consapevolezza di un fatto sconcertante: l’ateismo puro è impossibile.
Perché esiste qualcosa invece che nulla? “Perché Dio lo ha voluto”, risponde il credente. “Perché dietro l’esistenza dell’Immanente c’è un preciso atto di volontà del Trascendente”. Allora perché esiste Dio? “Perché sì”, è la replica di chi ha fede. “Perché Dio esiste per definizione, perché è l’Essere Ontologicamente Necessario”. Apro l’Antico Testamento: “Io sono colui che sono” (Esodo 3,14). Ecco un passo di sconcertante modernità e raffinatezza filosofica: nel Pentateuco c’è il Dio della prova ontologica che Sant’Anselmo avrebbe formulato nell’XI secolo. Ma è un Dio che ai miei occhi è… superfluo. Perché spiegare la ragione dell’esistenza della realtà con un Dio che si autogiustifica? Non sarebbe più semplice, più elegante, più onesto fermarsi un passo prima e alla domanda “Perché esiste qualcosa invece che nulla?” replicare: “Perché sì, perché l’universo esiste per definizione, perché è l’Essere Ontologicamente Necessario”? Come Laplace a Napoleone, a chi mi chiede “Dov’è Dio?” io posso solo rispondere: “Non ho bisogno di quest’ipotesi”. E l’ateismo diventa un’applicazione del Rasoio di Occam.
Solo che, a pensarci bene, non è più un vero ateismo. Perché, se l’universo è ontologicamente necessario, allora l’universo è Dio. Non un Dio personale, non un Dio di amore che si preoccupa della mia sorte, che mi ha pensato e voluto e creato. E neppure un Dio onnipotente e onnisciente. Ma di sicuro, possedendo la necessità ontologica, l’universo condivide almeno questa caratteristica del divino. Parmenide, Spinoza… più di recente Einstein e Hawking: nella storia della cultura occidentale non mancano gli esempi di filosofi e pensatori che hanno elaborato questa forma sofisticata di panteismo. Nondimeno io continuo a definirmi ateo, nel mio conversare abituale. E’ più semplice. Di solito come “Dio” si considera una figura trascendente, benevola, giusta, la cui esistenza ci è stata tramandata dalla nostra tradizione culturale insieme ai riti da compiere per renderle omaggio. Ecco, quel Dio lì non è il mio Dio, sicché per me è più semplice dichiararmi ateo tout court e semmai precisare il mio criptopanteismo se il confronto sulle argomentazioni diventa serrato. Ma che fare, che dire quando, appunto, davvero diventa serrato questo confronto? Ecco allora la mia terza riflessione: devo ribaltare la prospettiva.
Spesso, quando affermo di non credere in Dio, mi si chiede perché. In passato accettavo questa domanda e mi dilungavo sulle ragioni del mio ateismo: il Rasoio di Occam, la teodicea… Non mancavano le frecce nella mia faretra. Però sempre mi toccava giocare in difesa: ero io, in qualche modo, a dovermi giustificare. Qualcuno, anzi, sorrideva e dichiarava che, non potendo io dimostrare che Dio non esiste, ero un uomo di fede al pari di qualsiasi prete. E talvolta questo qualcuno non era affatto l’ultimo degli sprovveduti. Giuliano Toraldo di Francia mi rimproverò, una sera a cena durante un congresso, di non essere razionale perché non potevo dimostrare l’inesistenza divina, mentre davvero razionale era lui, che invece si dichiarava agnostico: “Io non so, non sono sicuro se Dio esista o non esista”, mi disse. A onor del vero, tuttavia, devo anche precisare che subito dopo mi diede una gomitata e sottovoce aggiunse: “Però di una cosa sono sicuro: il Dio dei cattolici, quello della Madonna vergine e del Sacro Cuore sanguinante, quello che è Uno e Trino e si manifesta nella transustanziazione… ecco, quel Dio lì sono sicuro che non esiste!”.
Con il tempo ho capito che l’accusa di fideismo mossami dai credenti e perfino dagli agnostici non regge. Questo gioco non funziona così, e io non devo mai ridurmi in difesa. Perché non esiste alcuna simmetria fra fede e ateismo. Non si può pretendere dall’ateo una prova provata che Dio non c’è. Perché è semplicemente impossibile. Chi ne dubita si sforzi di dimostrare a un bambino cocciuto che Babbo Natale non esiste. Scoprirà così che non può, perché non avrà mai la certezza che in qualche angolo remoto dell’universo non ci sia un signore obeso che si muove su una slitta trainata da magiche renne volanti. So che questo paragone fra il Creatore dell’universo e una squallida icona del consumismo può offendere la sensibilità di qualcuno, può perfino apparire superficiale, ma purtroppo non cambia la sostanza (filosofica) della questione: non si può dimostrare che qualcosa (qualsiasi cosa) non esiste. E l’onere della prova spetta sempre a chi sostiene l’esistenza di qualcosa. Perciò ora, a chi mi chiede per quale motivo non credo in Dio, rispondo solo: “Perché, dovrei?”. Ovvero: forniscimi una buona ragione per pensare che Dio esista e io lo farò. In assenza di questa buona ragione, è più semplice ritenere che non esiste.
Messa così, sembra una chiusura. Perché la buona ragione non c’è. Non ancora, almeno. L’ho cercata a lungo. Ho parlato con molte persone di fede. Ho letto certi tomi di filosofia… Eppure mai ho incontrato una riflessione, un ragionamento, un’argomentazione che mi costringessero a riconoscere che esiste un Trascendente. E di fronte al dramma della sofferenza innocente mi sono sempre sentito rispondere: “Mistero!”. Eppure le mie domande rimangono aperte e il dialogo possibile. Anzi, se un dialogo è possibile, è proprio fra chi crede e chi è ateo.
Mi reco ancora, talvolta, a Messa. Non più con l’arroganza adolescenziale ma con una certa curiosità. Osservo chi crede e mi chiedo in che cosa crede davvero. Me lo chiedo e glielo chiedo: non mi limito a guardare le persone, ma mi accosto a loro e pongo domande. Ne vengono fuori strane idee e buffe incertezze. Fra coloro che si sono appena accostati all’Eucaristia pochissimi sanno che cos’è la transustanziazione. I più fanno spallucce, sorridono e dichiarano che quel pezzo di pane è un simbolo. Ritengono la verginità di Maria un bizzarro mito del quale sorridere. E, com’è ovvio, per loro l’Immacolata Concezione è il concepimento di Gesù. Io ascolto e non commento ma, dentro di me, trasecolo. Argomenti sui quali per secoli sono stati versati fiumi di inchiostro e di sangue sono ridotti, nel pensiero di molti credenti contemporanei, a questioni insignificanti. Tutto è annacquato in un blando teismo fondato su una ritualità un po’ vuota e su un indistinto bisogno di spiritualità che, per puro caso, si esprime nella tradizione culturale cattolica. La fede religiosa è qualcosa di cui si prende atto la domenica a Messa e, semmai, nei grandi momenti di transizione della vita umana: il matrimonio, la nascita di un figlio, il lutto. Per non parlare delle prescrizioni morali: “Certo, il Papa dice che non si deve praticare la contraccezione, ma… non siamo mica matti! Io un altro figlio non posso permettermelo!”. Insomma, non c’è riflessione profonda né sul senso della vita né sul significato dei rituali. Perfino quando la religione diventa un tema di attualità perché ci si confronta con fedi esotiche il pensiero rimane in superficie. Come il cristianesimo è il campanile, la Messa domenicale, il crocifisso negli edifici pubblici, così l’Islam è il minareto, il velo femminile, la preghiera in ginocchio per strada, il terrorismo. Ben pochi rilevano le differenze teologiche, l’insistenza sul monoteismo, l’interpretazione letterale della Scrittura, la diversa sensibilità spirituale che giustifica il nome. Quanti sanno che Islam significa “sottomissione”?
Con chi, allora, può parlare e confrontarsi proficuamente colui che davvero vive la propria fede come una risposta alle istanze spirituali supreme? Non certo con il “credente della domenica”, al quale poco o nulla importa della ricerca del significato esistenziale. Con l’ateo sì, invece. La conclusione è diversa, anzi opposta. Ma per l’ateo, non bisogna dimenticarlo, la verità è in fieri e aperta al cambiamento. E, soprattutto, le domande sono condivise, ineludibili e urgenti. L’ateo, nella propria negazione, riconosce consapevolmente il problema del senso. Prima ancora di rispondere, si interroga. Ecco la base comune sulla quale si gioca la possibilità del dialogo. Poi, beninteso, si può discettare all’infinito e il confronto può rivelarsi più o meno fecondo e portatore di un arricchimento reciproco. Ma solo con chi si pone le domande ci si può incamminare alla ricerca delle risposte.
Mi volto verso la finestra. Il mio sguardo spazia sugli olivi dell’ubertosa campagna umbra. E penso che oggi Francesco, prima che con il Saladino, vorrebbe parlare con me. E io vorrei parlare con lui. Ora so perché sono qui.