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ATLANTIS: Fernando Coratelli - Lì dove niente può succedere

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ATLANTIS: Fernando Coratelli - Lì dove niente può succedere
Fernando Coratelli -Lì dove niente può succedere
Quando sento parlare alle mie spalle mi giro. Capisco che c’è qualcuno che mi sta chiedendo qualcosa in una lingua che non conosco. Avere vissuto qui un anno, tempo fa, non è servito a granché, tranne che per poche parole in croce necessarie a farmi servire da mangiare e da bere vino rosso (rotwein, come dicono da ’ste parti) non ho imparato altro.– Sorry, I don’t speak german – È questa la locuzione che meccanica parte da me - tipo nastro registrato impresso sulla lingua. Tuttavia dopo che la frase rituale è stata pronunciata mi accorgo che chi mi ha rivolto una domanda incomprensibile, in lingua teutonica, è una donna che mi guarda con occhi sgranati, spaventata a morte.La guardo dal basso verso l’alto, con una mano sulla fronte a proteggermi dal sole alto alle mie spalle.La tipa sembra non abbia recepito il mio essere straniero né il fatto che non conosca il tedesco. Va avanti a parlare, a dire concitata qualcosa, e seppure conoscessi la lingua di Goethe di certo faticherei a capire quanto sta dicendo visto che è in preda al panico.Mi alzo in piedi e salgo i gradini della scalinata sul Reno dove me ne stavo beato a contare le chiatte che attraversano il fiume, intervallando la conta con alcune pagine di un vecchio romanzo americano che non so perché ho iniziato a leggere qui quando venni a viverci e che non ho mai finito - e avevo pensato di riprenderlo ora, in questo viaggio di ritorno.La donna dai capelli castani dice ancora qualcosa di incomprensibile, e nel frattempo ci troviamo sullo stesso gradino allo stesso livello. È alta quanto me, è il primo pensiero che mi si staglia in mente quando siamo di fronte, tanto cercare di capire quello che dice è inutile.– I’m really sorry, but I don’t understand german – le ripeto, sfiorandole un braccio quasi a fermare l’emorragia di parole dai suoni gutturali e nerboruti che mi investono da un paio di minuti.Come ridestata da un brutto sogno, la tipa mi guarda confusa, si zittisce per un attimo e balbetta qualcosa sottovoce. Ha capito, mi dico, e provo a sorriderle.– Di dove sei? – mi domanda infine in inglese, e mi sento meno sperduto.– Sono italiano. – Italiano? – ripete la donna, sorpresa, come se di italiani da queste parti non ce ne fossero, come se le carrettate di ristoranti calabresi e napoletani fossero esotici universi gestiti da composti svedesi.– Sì, sono italiano. – E li conosci? Ecco, non sono sicuro di avere capito neppure la domanda in inglese. Conosceròchi? Comincio a credere di avere a che fare con una squilibrata: bella, alta, dallo sguardo magnetico, che indossa una gonna che evidenzia due ginocchia perfette, ma insana quanto una sbronza di grappa.– Non so di chi parli, scusami – mi giustifico, e nello stesso istante in cui lo faccio mi chiedo perché invece di darle retta non ho girato i tacchi e non me ne sia tornato verso il Duomo.– Sono francese – dice e abbassa lo sguardo, poi si mette a sedere sui gradini e si prende la testa fra le mani. Bene, ora il melting pot è completo e la tipa sembra stia piangendo o sia lì lì per farlo. Indeciso se andare via, restare in piedi a osservare la linea delle gambe della donna o provare a capirci qualcosa, mi siedo pure io e riparto a contare le chiatte che solcano il Reno.Ero arrivato a quattro. Quella sarà la quinta.Prendo dalla tasca della giacca un Toscanello e lo stringo fra le labbra senza accenderlo.– Vivi qui? – mi chiede, d’improvviso, rialzando la testa. No, non ha pianto, le osservo le iridi che non sono lucide.– No – ribatto, – ho vissuto qui un anno tempo fa. Sono tornato tanto per.– In vacanza?! – Diciamo. – Ah, quindi non li conosci? – Chi dovrei conoscere? – Gli italiani, anche se secondo me non sono italiani. – Davvero fatico a seguirti – taglio corto, e intanto da sud intravedo un’altra chiatta - la sesta, che viene superata da alcuni scafi privati che planano sulle increspature del fiume.– Terresti questa per me? – mi chiede la pazza, e mi mostra una chiavetta usb.– Senti, non so che film tu abbia visto ieri sera, ma la spy-story non è roba che fa per me. – È un piccolo favore che ti chiedo. – Cosa c’è su questa chiavetta? – La mia vita – risponde e si passa una mano fra i capelli.Scoppio a ridere, non potrei altrimenti, dopodiché lei ripiazza quello sguardo confuso e sperduto, e temo che stavolta attacchi a piangere sul serio. Afferro la pen-driver e la infilo nel taschino della giacca.– Lo vuoi un caffè? Questa mia domanda la disorienta, più di quanto già non lo sia, poi però aggrotta la fronte e ribatte: – Sì, beviamo qualcosa, ma non un caffè, un bicchiere di vino. Ti va? – E guarda l’orologio che porta al polso, e di riflesso anche io do una scorsa al mio cellulare per sapere che ore sono: le cinque del pomeriggio.A Mainz fa caldo, più di quanto l’immaginario collettivo possa credere e affermare. Soprattutto a maggio in un pomeriggio come quello odierno. Stamattina pareva mettere pioggia, e la tipa deve essere uscita presto perché al braccio porta un trench che ora è di troppo con il sole che scotta.Lei si avvia, io le vado dietro; cammina con passo altero e elegante, ha un’andatura da modella, o da indossatrice - come direbbe mio padre. Percorriamo un centinaio di metri sul lungofiume senza dirci niente, incrociando un manipolo di cultori del jogging, qualche famiglia tedesca dalle capigliature bionde al vento in bicicletta, qualche cane che scodinzola al passo con il padrone. E poi una manciata di adolescenti, che ridono, che passeggiano in gruppo.– Dove stiamo andando? – domando alla tipa, affiancandomi a lei.– Ah, non lo so. Sei tu quello che conosce Mainz, no? È ufficiale: non ci capisco più niente, mi sono perso, stavo così bene a contare chiatte e leggere pagine di Capote. La prendo per un braccio, la giro verso di me e mi fermo.– Va bene – dico, sfilandomi gli occhiali da sole, – di dove sei? Dove vivi? Come ti chiami? Che ci fai qui? Ride. Io non ci trovo niente di divertente,  ma ha una risata splendida, e non riesco a mandarla a quel paese, come forse avrei voluto. Sarà che ci siamo fermati all’ombra sotto gli alberi, sarà che una leggera brezza arriva dal Reno, sarà perché è una donna e si sa che le donne soffrono di più il freddo, ma lei si mette il trench sulle spalle, si aggiusta i capelli dietro le orecchie e dice: – Vivo a Berlino, ma sono di Metz. Mi chiamo Jennifer.Metz, la ligne Maginot, la Lorena. Quello che non mi torna è il nome: Jennifer non è proprio francofono.– Ho capito – dico, – e che ci fai qui a Mainz? – Ci sono arrivata l’altro ieri. Un appuntamento di lavoro. Insomma mi porti a bere o no? – Sì, certo. 
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