di: Renzo Zambello
E’ indubbio che negli ultimi decenni è cambiata la tipologia della sofferenza psicologica. Agli inizi del novecento i neuropsichiatri vedevano oltre alle forme congenite, croniche di deficit mentale, psicotici in delirio produttivo o casi di isteria. Ora, quest’ultima sembra essere quasi totalmente scomparsa, per la verità non è proprio così ma, è certamente cambiata la sintomatologia prevalente. Dati credibili dicono che il 10, 15% della popolazione di pazienti che affolla tutti i giorni gli ambulatori dei medici di base e, il 40,45% di quelli che chiedono aiuto ad uno psicoterapeuta, soffrono di attacchi di panico.
Sappiamo bene che questi attacchi si presentano al paziente come un’ esperienza improvvisa e drammatica che coinvolge completamente mente e corpo. E’ come se improvvisamente tutto andasse in corto-circuito, il paziente prova tremore, sudore, nausea, vertigini, iperventilazione, parestesie (sensazione di formicolio), tachicardia, sensazione di soffocamento o asfissia. La maggior parte delle persone che soffre di attacchi di panico riferisce la paura di morire o di perdere il controllo delle proprie emozioni e comportamenti, cioè di impazzire. E tutto ciò avviene improvvisamente, apparentemente senza alcun preavviso e alcun motivo.
Le sequela prevede il correre a chiedere aiuto ad un medico, spesso il ricovero in un pronto soccorso, poi la diagnosi: nessun problema fisico, è un attacco di panico.
Seguono le indicazioni terapeutiche: farmaci, ansiolitici, antidepressivi e forse, non sempre, l’indicazione ad intraprendere una psicoterapia comportamentale che dovrebbe aiutare il paziente a superare le ferite psicologiche lasciate dall’attacco di panico. Ferite a volte non di poco conto, infatti il paziente tende a non andare più nei luoghi dove ha avuto l’attacco, a chiudersi piano, piano in se stesso, ad isolarsi.
Personalmente non credo affatto che tutto ciò dipenda da “errori” organici, del nostro “computer cervello” che improvvisamente va in tilt e credo anche poco che la terapia passi attraverso un tentativo di superare le micro e macro-fratture che si sono formate dentro in seguito al terremoto emotivo e fisico quale è l’attacco di panico.
Sono convinto che esso sia in realtà, solo il sintomo di un disagio profondo di cui il paziente non aveva consapevolezza e inconsciamente negava. L’attacco di panico è in realtà l’occasione che l’inconscio si da per cambiare, prendendo contatto con problemi negati e, forse, con le vere istanze del sé.
Se sono verosimili le percentuali che riferivo prima circa gli attacchi di panico, è altrettanto verosimile che oggi le manifestazione psicopatologiche più comuni che vediamo in terapia, sono “stati” di frammentazione del sé.
Non sono più le grandi patologie, quelle che una volta venivano chiamate personalità multiple ma, stati al limite, dove il paziente agisce su più livelli, in più ruoli, su più stati emotivi poco comunicabili tra loro. Chi qualche volta è stato in un grande aeroporto, dove ci sono una serie di gates che si distaccano a raggiera dal corpo centrale, capisce cosa intendo.
E’ come se il paziente vivesse separatamente di volta in volta, queste “bolle” esperienziali che si staccano dal corpo centrale e pur rimanendo collegate ad esso, sono in realtà a se stanti e tra loro difficilmente comunicabili.
La sintomatologia è l’incapacità del paziente a provare vere soddisfazioni o dolori, qualunque cosa faccia, ottenga o succeda è continuamente in preda ad una ansia generalizzata e aspecifica.
Il corpo è allora diventato l’elemento unificatore, centrale, il più antico del sé.
E’ lui che trasmette, che racconta il disagio. Se siamo capaci di coglierne il simbolo, possiamo leggere nel racconto della sofferenza che segue l’attacco di panico, la realtà di un sé spaccato che teme di frammentarsi ulteriormente, di perdersi.
E’ però un Sé ancora vitale, sofferente, ma potenzialmente capace di rinnovarsi.
Temo che spesso la “pastiglia” sia come il silenziatore. Come se mettessimo un bavaglio alle urla di un bambino. Urla che ci infastidiscono perché non le capiamo, o perché pensiamo di aver altro di cui occuparci.