Attacco a ovest del Blocco J

Creato il 13 settembre 2011 da Marco4pres

Da sola, la parola scritta non basta a comunicare l'orrore. (Amira Hass - Internazionale)

Dicono che il mondo è piccolo ed è la verità. Una settimana fa a Rafah incrocio Asim, un fotografo conosciuto a Sarajevo. Adesso lo incontro nella rumorosa Sea Street mentre ha appena finito una telefonata. Gli hanno detto che le ruspe sono al lavoro nei pressi del Blocco J. In realtà Abed e io dovremmo occuparci della questione del 1956, ma lo seguiamo al piccolo trotto verso l’area di confine.

Il rumore di Sea Street si allontana ed entriamo in un’enorme quiete. Si uniscono a noi alcuni giornalisti palestinesi e il solito branco di ragazzini che non possiamo e non ci preoccupiamo di scrollarci via. Forse vogliamo il loro chiasso.

Scavalchiamo la crosta di detriti delle case precedentemente demolite… e siamo sul terreno in cui le hanno sepolte.

Adesso sentiamo e vediamo le ruspe… e dietro scorgiamo un AFV di scorta (semovente blindato). Corriamo verso un gruppo di edifici il più velocemente possibile. Ci troviamo un uomo stordito di nome Munir Abdelsalam Hassuna. C’è con lui sua madre. Hanno appena attaccato il retro di casa sua.

“Vivete qui?”

“Sì, io, mia madre, mia moglie e i bambini. Le ruspe hanno tirato giù i muri… e, come vedete, hanno sparato. Eravamo dentro casa, siamo usciti proprio ora.”

“Ma gli israeliani vi hanno avvertito?”

Pensa che stia scherzando. “No. A un certo punto hanno cominciato a piovere pallottole in casa.”

“E adesso cosa farete?”

“Non lo so. Dio ci aiuterà. Al momento siamo in mezzo alla strada.”

Vuole mostrarmi i danni subiti dalla casa. Sbircia nel corridoio dal buco di un proiettile…

“Il blindato è dentro.”

Gli auguriamo buona fortuna e raggiungiamo in fretta gli altri. Facciamo il giro della costruzione per osservare la ruspa che sta rivoltando il terreno dietro una grande casa. Un altro macchinario israeliano sta affondando una trivella nel terreno. Una grossa esplosione disperde per un attimo la folla di curiosi. La scavatrice sta detonando esplosivi posti sotto terra per far crollare eventuali tunnel. Nel frattempo la ruspa continua a rimestare detriti… Rimesta… e finalmente!

Alcuni adolescenti si rotolano su un mucchio di terra accumulata durante una demolizione precedente. Fanno gli scemi a beneficio dei loro amici. A questo punto non sanno decidersi se guardare i mezzi israeliani o prendersela con Asim. Non vogliono che Asim li fotografi. Quando si sono stancati di stuzzicare lui, se la prendono con me. Gli adolescenti mi hanno stufato. Sono stufo del loro scherno e delle mosse che fanno. Se oggi uno di questi stronzetti venisse colpito. sarebbe dura mostrarmi dispiaciuto.

Dubabah! Dubabah!

Duabbah! Significa carro! E all’improvviso… il blindato di copertura… sfreccia fuori dal nulla… come un ragno… e corre… verso di noi!

Corriamo… ce la diamo a gambe levate… tranne un fotografo… che rimane a… scattare… e un ragazzino… paralizzato… sul cumulo.

puff… Riprendiamo fiato. Un attimo di pausa. Ed ecco che salta fuori una donna. Vede il mio bloc-notes. E lo prende per un invito a lasciarsi andare!

“I nostri figli sono senza latte e cibo e loro ci distruggono anche le case! Non sono esseri umani! Sono animali! Hitler non gli ha fatto niente del genere! Hitler non li ha cacciati dalla loro terra! Hitler non ha demolito le loro case! Chiedo a Dio che i Figli di Israele e dell’America diventino come noi… Orfani!”

Afferra un paio di ragazzini che le passano accanto.

“Dove finiranno questi bambini?”

Si divincolano dalla sua stretta e adesso un fotografo si fa avanti e mette a fuoco la sua faccia per una decina di secondi… prima di voltarsi senza una parola per scattare foto a qualcos’altro. Ma un altro abitante del luogo fa la sua comparsa.

“Perché fate foto? Cosa fotografate? Le case? Se vedo la mia casa in TV vi riterrò responsabili!”

Poi nota un paio di militanti vicino a casa sua. Non gli frega un accidente del blindato, che fa partire una scarica ogni minuto o due… Allunga il passo verso i combattenti, attraversa l’area aperta. Gli urla contro! Non vuole che sparino agli israeliani nelle vicinanze di casa sua. (Non dimentichiamo che la politica israeliana è di radere al suolo tutte le case da cui sostengono siano provenuti spari.) E adesso un altro gruppo si aggiunge al party, attivisti stranieri del Movimento di Solidarietà. A Rafah ce n’è una manciata, europei e americani, e stanno nelle case che sembrano più a rischio di demolizione. Mentre tutti gli altri cercano riparo, loro rimangono in piedi allo scoperto, spiegando uno striscione e iniziano a urlare in direzione della ruspa. Quando il campo sembra libero, Abed e io attraversiamo l’area per avvicinarci all’azione. Incrociamo un uomo che strappa l’erba.

“È per la mia pecora.”

Ci imbattiamo nell’uomo che gridava contro i fotografi e i militanti. È arrabbiato e cammina avanti e indietro. Per i fotografi la sua casa è un’immagine. Per i militanti un riparo. Per gli attivisti, una causa. Per l’operatore della ruspa un giorno di lavoro. Ma per lui? Vorrei scambiare una parola, da un essere umano all’altro. Metto via il block-notes e lo avvicino. Mi dà la mano con diffidenza. Ma non mi guarda negli occhi. Non parla. Sa bene che anch’io sono qui per le macerie.

Il momento della sigaretta. Per ora siamo più o meno in un’impasse. Il blindato sta ricamando di buchi le case dalla nostra parte… e a volte fa il giro per sparare una salva anche dall’altra parte. In tutto questo, gli attivisti cercano di affermare pacificamente la propria presenza.

“Siamo del movimento di solidarietà internazionale!”

I militanti vorrebbero sparare almeno un colpo. Intimano ai ragazzini: “Smettetela di seguirci! Sapete cosa succede se vi capita di incrociare una pallottola? Rotolate per terra come un pallone!”

Oh merda! Non guardare! Adolescenti avanzano verso di noi! Prima che comincino a rompermi le scatole, gli chiedo cosa pensano delgi attivisti.

“Non mi piacciono. Non sono musulmani. Solo Dio sa se sono con noi o contro di noi.”

Mi chiede se sono musulmano. “No, non lo sono.”

“Allora andrai all’inferno.”

“Sei arrabbiato perché non sono musulmano?”

Ci pensa sopra. “No… non sei mio nemico.”

“Ma non sono neanche tuo amico, eh?”

“Vero.”

Ci diamo la mano per sancire la cosa. Chiedo all’altro ragazzo cosa pensa degli attivisti.

“Vorrei essere anch’io come loro.”

Bravo!

“Davvero, secondo me è buono se rimangono nei paraggi.”

Un altro paio di ragazzi si unisce alla nostra conversazione. Vogliono saere cosa ci faccio a Rafah, così gli riassumo la mia ricerca sul 1956.

“E a cosa serve?”

“Viene dall’estero, che ne sa della Palestina?”

Uno di loro si agita non appena sente il rumore dei veicoli israeliani. “Perché vengono a farci questo? Un mese e mezzo fa hanno demolito casa mia.”

“E adesso dove vivi?”

“In un appartamento non molto distante da qui.”

“Perché il nostro paese è ridotto così?”

“Perché non siamo vicini a Dio”

Gli chiedo quale pensano che sia il modo migliore per resistere.

“Avvicinarsi a Dio.”

“Con le bombe.

“Noi ti piacciamo?”

Joe Sacco, Gaza 1956 – Note ai margini della storia (2009)

Altri capitoli da Gaza 1956:



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