Il mantra della crescita è oggi intonato da tutti per un semplice motivo: non dice tutto e quindi non impegna. L’insistenza sulla “crescita” è stato uno dei motivi che ha accompagnato il sorgere del baraccone delle bolle prima del collasso strutturale che sta travolgendo l’economia dei paesi occidentali e del Giappone. Se fosse vero che la crescita «del Pil» è tutto, com’è possibile che gli Stati Uniti, che per anni e anni vedevano il Pil aumentare al ritmo per noi frustrante e quasi arcano del tre o del quattro per cento, si trovino ora in una situazione molto “italiana”, tra stagnazione, disoccupazione al 10% e debito pubblico al 100% del Pil? E’ inutile dolersi di una resa dei conti che prima o dopo doveva metter fine all’inganno di una crescita malata, fondata su debiti “privati” sui quali però in qualche modo gli stati apponevano la loro firma, tanto che alla fine della commedia li hanno fatti propri, incrementando a dismisura i debiti pubblici. Il “capitalismo selvaggio”, che è la libera economia orbata dalla mano politica dei suoi freni naturali, e la “finanziarizzazione” dell’economia nascono sotto l’ala dello stato: una decente economia “di mercato” avrebbe segnalato i guasti molto prima e molto prima avrebbe spento la potenza di fuoco degli “speculatori”. Non è stato, quello di questi anni, il fallimento dell’economia “di mercato”: solo la forza dello stato può promuovere e farsi garante di una condotta antieconomica, generalizzata e continuata, nei suoi fondamenti: o attraverso la spesa pubblica e il welfare, o attraverso una politica monetaria “ideologicamente” espansiva delle banche centrali. Lo stanco Occidente, invece di scegliere la stretta via della rettitudine e del buon senso che porta alla formazione del risparmio e del capitale, da una parte – chi più chi meno – ha continuato a percorrere, con più accortezza ma sempre più affannosamente, la larga via dello stato assistenziale; dall’altra – chi più chi meno – ha optato per la larga via del denaro a costo zero per tutti, e questa corsa all’El Dorado è stata fatta passare per “liberalismo” economico, quando invece era sempre la mano paternalista dello stato ad affidare al “consumatore”, facendosi garante di tale scempiaggine, il compito di “far girare l’economia” come un criceto nella ruota: ossia di smettere di risparmiare per indebitarsi per case, automobili e vacanze, per divorare a più non posso beni di consumo; insomma per buttare via tutti i soldi nella spesa improduttiva. Un ciclo infernale di stimoli ed incentivi, incentivi e stimoli, che ha sostituito il naturale funzionamento dell’economia.
In questo contesto si capisce perché l’Italia, in mancanza di strenue virtù e ferree volontà, non cresca da vent’anni: con un debito al 120% del Pil aveva esaurito le cartucce per tutti i trucchi. Ed ora, non solo per essa, è giunto il momento di far sul serio. L’Italia ha una fortuna che si è meritata grazie al demerito degli altri: il mostro del suo debito pubblico è ormai accompagnato da mostricciatoli che ingrandiscono a vista d’occhio e che non la fanno sentire più sola nella vergogna. E “l’atterraggio” italiano delle economie dei paesi occidentali non è stato ancora completato. Persino nella pimpante Germania il debito pubblico ha superato da tempo a grandi passi la soglia dell’ottanta per cento del Pil, e se è comprensibile che i contribuenti tedeschi non ne vogliano proprio sapere di “salvare” la Grecia, sarebbe ancor meglio che questa loro ostentata mezza virtù diventasse una virtù tutta intera e si accollassero in esclusiva l’onere e l’onore di salvare gli istituti di credito tedeschi impelagati nel paese mediterraneo. A ben guardare anche il paese dei crucchi non gode di una salute di ferro. Non saranno gli annunci drammatici a “salvare” l’Italia dal fuoco della “speculazione” e dal naufragio solitario. Sarà un quadro complessivo di debolezza uniforme che s’imporrà agli occhi di tutti, speculatori compresi.
Il dramma di questi giorni ha anche il suo lato comico. Dalle parti sociali, da mezzo secolo patrocinatrici della mummificazione italica, che chiedono al governo una scossa riformatrice senza dire una sola parola su dove far scorrere il sangue, oltre che su quegli scandalosi costi della politica che nel bilancio della nazione non contano un piffero, o su quelle inutili province sulla sorte dei cui dipendenti si tace però religiosamente; al nostro inimitabile Berlusca, che convocato con urgenza per via telefonica al tavolo dei grandi d’Europa, convoca immantinente il popolo italiano in televisione, per dirgli di aver convocato con urgenza per via telefonica i grandi d’Europa allo scopo di spronarli a darsi una mossa e per comunicare a quei posapiano la decisione del governo italiano di anticipare il pareggio di bilancio al 2013, la sua volontà di modificare la Costituzione in materia di liberalizzazioni e sull’obbligo del pareggio del bilancio – sacro come i vincoli di Maastricht su cui tutta l’Europa giurò, suppongo – e di mettere mano alla normativa vigente sul mercato del lavoro; alla Camusso e ai tribuni dell’opposizione che al solo sentire questi propositi d’intenti ancor vaghi sono venuti i capelli dritti in testa nel timore che il Berlusca nella disperazione possa far sul serio: un’altra dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che dai guai l’Italia può uscire solo con questa maggioranza, piaccia o non piaccia – l’opposizione non avrebbe nemmeno, tremontianamente, “tenuto duro” – senza contare il valore aggiunto, altissimo, essenziale, di un processo democratico non violentato da colpi di mano.
Che nel breve-medio termine la spinta dovuta a liberalizzazioni, dismissioni del patrimonio pubblico, tagli prudenti ma progressivi della tassazione, innalzamento dell’età pensionabile, possa contrastare con successo gli effetti recessivi della necessaria e benedetta minor propensione delle famiglie ai consumi, dei tagli allo stato sociale e alla pletora dell’impiego pubblico, riuscendo nel contempo a rosicchiare qualcosa al monte del debito pubblico, mi sembra arduo. Il sentiero è stretto e andrà percorso con costanza. In un quadro simile un modesto segno + agli effetti puramente contabili del Pil sarebbe già una vittoria: sarebbe tutta roba autentica.
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