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Creato il 16 maggio 2010 da Renzomazzetti

la città del soleLe Utopie sono una manifestazione, la sola possibile e in certe forme, dello spirito moderno essenzialmente contrario alla Controriforma. Le Utopie sono dovute a singoli intellettuali, che formalmente si riattaccano al razionalismo socratico della Repubblica di Platone e che sostanzialmente riflettono, molto deformate, le condizioni di instabilità e di ribellione latente delle grandi masse popolari dell’epoca; sono, in fondo, manifesti politici di intellettuali, che vogliono raggiungere l’Ottimo Stato. I singoli intellettuali tentarono di trovare, attraverso le Utopie, una soluzione di una serie dei problemi vitali degli umili, cioè cercarono il nesso tra intellettuali e popolo; essi sono da ritenere pertanto i primi precursori storici dei giacobini e della Rivoluzione francese, cioè dell’evento che pose fine alla Controriforma; così Antonio Gramsci aiuta nello studio. Il De Sanctis: Notabile è soprattutto l’interesse che prende per l’educazione e il benessere del popolo. La scienza fino allora è stata aristocratica, religiosa e politica, rimasta nelle alte cime. I mutamenti politici sono vani, se non hanno per base l’istruzione e la felicità delle classi più numerose. Esempi: La riforma delle imposte, sì che non gravassero principalmente sugli artigiani e i villani, toccando appena i cittadini o borghesi, e niente i nobili; l’imposta sul lusso e su’ piaceri; i ricoveri per gli invalidi, gli asili per le figliole dei soldati; i prestiti gratuiti a’ poveri sopra pegni; le banche popolari; gl’impieghi accessibili a tutti; un codice uniforme, l’uniformità delle monete; l’incoraggiamento delle industrie nazionali. Lasciate le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche, malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo studio del reale per migliorare le condizioni sociali, questa è l’ultima parola del Campanella.

LA GRANDE MISSIONE.

Io nacqui a debellar tre mali estremi: Tirannide, sofismi, ipocrisia. Questa è la sintesi della missione di Tommaso Campanella, frate domenicano, sottoposto a quattro processi per sospetti d’eresia, promotore della rivolta in Calabria del 1599 contro gli spagnoli, sottoposto a tortura e scampato al rogo riuscendo a simulare la pazzia, gettato in carcere e ivi tenuto per ventisette anni. Del dodicesimo anno di prigionia è questo sonetto che fa il bilancio delle sue sofferenze:

Sei e sei anni che ‘n pena dispenso

l’afflizion d’ogni senso,

le membra sette volte tormentate,

il sol negato agli occhi,

i nervi stratti, l’ossa scontinuate,

le polpe lacerate,

i guai dove mi corco

li ferri, il sangue sparso e ‘l timor crudo

e ‘l cibo poco e sporco.

Ma nessun tormento fiaccò il suo spirito, e nei ventisette anni che passò in carcere non solo riscrisse tutte le opere i cui manoscritti gli erano stati sottratti durante i primi processi e bruciati, ma ne scrisse altre, piene di quei concetti filosofici sulla natura e il mondo, sulla conoscenza per via dei sensi, che ne fanno un anticipatore della filosofia moderna. Nelle sue poesie c’è l’aperta professione di fede nella missione ch’egli sente di dover compiere:

. a devellar l’ignoranza io vegno

dice di sé, e davvero di fronte alla realtà del suo tempo, fatta di roghi e di persecuzioni, di guerre continue e di invasioni, di carestie e di miserie infinite per interi popoli, lui, uomo di pensiero, animato da una profonda passione rinnovatrice, era portato ad immaginare per sé il compito di farsi banditore di nuove dottrine, e a lanciare agli uomini il suo manifesto politico e sociale, la sua città futura

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LA CONSOLAZIONE DELLA FILOSOFIA -parte-

Io che un tempo poetai con giovanile ardore

ora son costretto nel pianto ai modi della tristezza.

Lacere Camene, ecco, dettano i miei versi

mentre gli elegi mi rigano il viso di lacrime vere.

E loro, almeno, nessun terrore poté persuaderle

a non farsi compagne del mio cammino.

Furono gloria della giovinezza verde e felice,

ora consolano il mio triste destino di vecchio.

Perché incalzata dai mali la vecchiaia è giunta inattesa

e il dolore ha preteso l’età che più gli conveniva.

Precoci si spargono sul capo i bianchi capelli

e la pelle, vuota, trema intorno al corpo sfinito.

E’ morte lieta quella che non spezza i dolci anni

ma si dona agli infelici che tante volte l’hanno invocata:

ohimè, quanto sorda distoglie invece il suo orecchio dai miseri

e crudele rifiuta di chiudere gli occhi che piangono!

Quanto l’infida Fortuna spirava propizia, con gioie fallaci,

per poco un’ora triste non mi sommerse il capo:

ora che il suo volto ingannevole muta e si copre di nubi,

la vita sciagurata protrae un’odiosa bonaccia.

Perché, amici, tante volte mi chiamaste felice?

Chi cadde, non aveva fermo il passo.

Quando Febo con quadrighe color di rosa

inonda di luce il cielo,

si ottunde e impallidisce il bianco volto

della stella che le sue fiamme premono.

Quando all’alito tiepido di Zefiro

rosseggia il bosco di rose in primavera,

se pazzamente soffia Austro nebbioso

di ogni bellezza si spogliano le spine.

Spesso in calma tranquilla splende il mare,

i flutti sono immoti:

spesso Aquilone scatena furore di tempeste

e ribolle la placida distesa.

Se il mondo poco dura nella forma sua propria,

se tante vicende muta,

credi alle sorti caduche degli uomini,

credi ai beni fugaci!

Dura per legge eterna, ed è sancito,

che nulla duri di ciò che è generato.

-Boezio-


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