E’ morto perché ha amato troppo. E’ giusto dire così.
E ha amato tutti coloro, in particolare i bambini rimasti orfani e abbandonati a stessi, nella Freetown (Sierra Leone),dove l’ebola ha falcidiato di questi tempi inesorabilmente migliaia e migliaia di vite umane.
I suoi colleghi dell’orfanatrofio St.George Foundation ricordano Augustine Baker quale volontario instancabile, di continuo in cammino.
E sempre alla ricerca di tutti quei piccoli emarginati dalla gente comune perché, appunto, timorosa di contagio.
E non incontrava solo bambini ma, spesso, addirittura intere famiglie, lasciate sole.
Famiglie numerose, confinate in miserabili tuguri senza il minimo necessario per la propria sopravvivenza e con tanta sofferenza in corpo.
Sofferenza, che traspariva tanto dagli sguardi imploranti che da ogni minimo gesto. Persone che, come i piccoli, dinanzi al male e alla morte si erano dovuti occupare, gioco forza, dei propri cari, contagiandosi.
E, un bel giorno, senza preavviso, destino beffardo, accade che la “morte rossa”colpisce anche il “nostro”.
Sì, Augustine.Proprio lui.
E non c’è niente da fare. Crolla in terra, privo di forze, all’improvviso, in un pomeriggio qualsiasi, mentre presenzia ad una riunione, una come tante, nell’orfanatrofio per il quale s’impegna.
Lo riferisce il cofondatore dello stesso,struttura sorta in città undici anni fa, nel 2004.
Dopo il tempestivo ricovero da parte dei colleghi nel centro di trattamento di Kerry Town, nella provincia della capitale, nel giro di due giorni il male ha la meglio e Augustine ci lascia.
Nonostante ultimamente, in Sierra Leone, sembrava che ci fosse una diminuzione del propagarsi dell’epidemia di ebola,e la cosa faceva ben sperare, c’è stato, invece, un consistente aumento dei casi e proprio nell’ultima settimana. Pare qualcosa come 63.
Secondo gli ultimi dati dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) in totale, in Sierra Leone, i decessi per ebola sono stati finora 3500, mentre i contagi ammontano a circa 11 mila.
Ricordare Augustine significa e deve significare che la solidarietà non è e non deve essere qualcosa di occasionale, se sul serio siamo intenzionati a combattere la cosiddetta “cultura dell’indifferenza”, come ci ricorda di continuo Papa Francesco, perché abbiamo capito dove affondano le radici del male.
Cultura dell’indifferenza è cultura che si nutre di egoismo e pratica, con disinvoltura, ogni genere d’ingiustizia.
Perché anche l’ebola, a dirla tutta e, soprattutto, a dirla giusta, è figlia dell’ingiustizia praticata con disinvoltura e bramosia. Da troppi secoli. In Africa.
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)