Anna Lombroso per il Simplicissimus
Una strage: sei le vittime in meno di 24 ore. La contabilità registra 269 morti dall’inizio dell’anno. L’incremento, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, è del 21,4 % (Dati Osservatorio Indipendente di Bologna sulle morti bianche). Il settore più colpito è quello dell’edilizia: 78 vittime dall’inizio dell’anno, il 29,4% sul totale. L’agricoltura, con 73 vittime, registra il 28,2 %: gli agricoltori muoiono per la maggioranza in tarda età schiacciati da trattori senza protezione che si ribaltano travolgendoli. L’industria ha contato 29 morti con una percentuale del 10,1% sul totale, mentre l’autotrasporto conta 22 vittime con il 8,3%. Gli stranieri morti sono stati 29 e rappresentano, in queste tragiche percentuali, l’11% sul totale.
Si le chiamano morti bianche, come fossero quelle dei bambini. E l’innocenza è la stessa, quella di vittime senza colpa. Ma allora cominciamo con il chiamarli senza ipocrisia, omicidi bianchi. Perché gli esecutori ci sono, ci sono le responsabilità e ci sono i “moventi”. Sempre gli stessi prodotti da cause interne al nostro modello di sviluppo: frammentazione del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro, la catena opaca e incontrollata di appalti e subappalti, la condizione precaria degli addetti e la loro fisiologica precarietà. E poi l’abbassamento del costo del lavoro e la preminenza aberrante della cosiddetta microimpresa nel nostro tessuto produttivo, che, nella sua diaspora, sottrae segmenti di prestazione d’opera a controlli e sorveglianza.
È come se un sistema economico producesse naturalmente vittime sacrificali sull’altare del profitto, dell’indifferenza a diritti e regole, dell’elusione di controlli e, molto spesso, grazie alla corruzione e alle complicità dei soggetti incaricati della sorveglianza e della repressione su comportamenti criminali.
La sicurezza è considerata un impiccio. E non solo per i padroni che vogliono fare presto, spendere poco in sistemi di sicurezza, incrementare la produzione. Anche per i lavoratori che preferiscono rischiare piuttosto che ribellarsi ai soprusi, piuttosto che entrare in attrito coi datori di lavoro e i kapo, che non reclamano a voce abbastanza alta formazione, controlli e attrezzature. La detassazione degli straordinari, la decisione dell’Ue di abbattere il limite delle 48 ore hanno contribuito a aumentare i tempi di lavoro facendo crescere esponenzialmente i rischi.
Il lavoro prima di tutto soprattutto ora che il lavoro è poco e poco tutelato.
L’Italia ha un numero di morti sul lavoro più alto rispetto alle altre nazioni europee sia in termini assoluti sia in termini relativi. A questo dato ne corrisponde un altro: la media e grande impresa italiana dal 2007 ha ridotto ininterrottamente la forza lavoro accumulando nello stesso tempo profitti mai così grandi nel nostro Paese e determinando lo scarto di reddito tra gli strati più ricchi e quelli meno ricchi che è il maggiore dell’Unione.
Uno scarto non incruento si direbbe. In termini di occupazione e di condizioni e qualità del lavoro.
Perché poi a mantenere la dinamica occupazionale sono quelle piccole imprese al di sotto dei 10 dipendenti, “cravattate” dalle banche, che lavorano senza capitali, che sottopagano, che reggono le loro sorti sul precariato, sul “nero”, sui sub appalti al massimo ribasso, sugli orari di lavoro più lunghi e sulla totale elusione della sicurezza.
E sono gli addetti di questa realtà industriale quelli davvero isolati. Quelli che muoiono per stanchezza, sottovalutazione del rischio. Quelli che muoiono soli, perché sono vittime due volte, di quegli omicidi e del venir meno di quel legame solidale, dell’assenza di una rete sindacale reticolare che determini l’autodifesa e la rivendicazione di diritti.
Ecco bisognerebbe che per ogni morte sul lavoro si potesse fare sul piano mediatico e su quello giudiziario, quanto è stato compiuto per la Thyssen.
Ma non è facile. Significa un’uscita anche culturale dal precariato dove precario non significa avere un contratto a tempo determinato soltanto, ma anche un percezione aleatoria e incerta del lavoro, quello di una grazia ricevuta e fragile, un privilegio del quale essere grato. Significa affrancare dalla vulnerabilità la figura precaria per eccellenza quella degli immigrato e quella degli stagionali, uomini e donne ricattabili e clandestini, che siano o no italiani, necessariamente docili, per dirla con Foucault. Significa consolidare il sistema di sanzioni e pene perché un caso non fa primavera e troppi imprenditori vivono una condizione di impunità. Con la sentenza della Thyssen si è stabilito un principio: non è legale uccidere in nome del profitto. Libertà, democrazia, equità significa anche un mondo nel quale lavoro non significhi morte.