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Aurora la spogliarellista

Creato il 11 luglio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

In una versione leggermente diversa questo racconto è accolto nella raccolta di racconti “Premio Strega” di Iannozzi Giuseppe, disponibile su Lulu.com

La versione qui presentata è forse ancor più godibile di quella già pubblicata. A Voi l’ardua sentenza. [ g.i. ]

contenuti espliciti
Aurora è sempre stata una topa tutto pepe, una di quelle che quando t’imprigionano fra le gambe non ti mollano più, finché non t’hanno spremuto ben bene anche l’anima. Aurora è una rossa con due occhi cilestri che ti stendono alla prima occhiata. Una volta s’era presa una mezza sbandata per un banchiere in pensione, e a quello vuoi non gli prenda un infarto proprio sul più bello? Se la cavò piuttosto bene: fu una cosa leggera, però Aurora ruppe subito con lui, non voleva averci più a che fare. Non ho mai indagato sul perché si sono lasciati, se perché aveva paura che gli morisse a letto o se si sentiva offesa da quel maschio che s’era fatto quasi prendere dalla Morte proprio mentre lei Aurora lo stava cavalcando.
Valle a capire le donne! Poi quando sono delle rosse naturali è l’incontro fra Inferno e Paradiso, un casino totale impossibile.

Aurora la spogliarellista

Premio Strega - Iannozzi Giuseppe

Aurora è una spogliarellista professionista, ma non le piace granché andare per locali a esibirsi, preferisce di gran lunga posare nuda davanti all’obiettivo della macchina fotografica. Dice che non le piace spogliarsi davanti a uomini e donne che sbavano. Dice che preferisce che sbavino sulle sue foto. Dice che è una persona timida; però quasi nessuno le crede, men che meno io che sono il suo fotografo.
Aurora non l’ho mai vista piangere, tranne in un’unica occasione: le era morto la gattina. La vidi piangere seduta in un angolo, con addosso solo una vestaglia giapponese di pura seta; se ne stava scalza, accucciata come una bambina che della vita conosce solo l’innocenza, e piangeva. Non l’avevo mai vista in un simile stato. M’avvicinai a lei e scherzosamente le chiesi se per caso le era morto la micia. Come una tigre la vidi balzare in piedi e appiopparmi subito uno schiaffo infernale. Me le ricordo ancora quelle cinque dita stampate sulla mia faccia rasata di fresco. Poi tornò a piangere, disperata e sola, accucciata e dimentica di tutto il mondo d’attorno.
Me ne andai confuso, incapace di pensare. Solo ipotizzai che doveva aver perso la brocca. Qualche giorno più tardi venne a chiedermi scusa, ma per finta, con un buffetto sulla guancia e mi spiegò che Pussy, la sua gattina, era morta. Non sapevo allora che Aurora avesse una gatta e soprattutto non sapevo che potesse essere una fanatica, una gattofila. In ogni modo, quella fu la prima e ultima volta che il suo volto fu solcato dalle lacrime: non la vidi perdere una sola goccia di dolore né in quel maledetto 11 settembre,  né durante la guerra in Iraq, né quando tirò le cuoia il mio compagno in un incidente di moto. Quel giorno mi venne vicino e mi diede la tragica notizia così, su due piedi, senza batter ciglio. Poi, per confortarmi, m’accarezzò le labbra con le punta delle dita, o meglio con le unghie lunghe, smaltate di rosso. Quella voleva essere una carezza. Una carezza, la più ambigua che essere vivente mi abbia mai dedicato. Rimasi chiuso in me per due settimane e allo studio fotografico non mi feci vedere: Aurora non sprecò un solo minuto per telefonarmi.
Malgrado ciò è la mia migliore amica, o forse si può dire che è il mio investimento migliore: le sue fotografie le vendo bene, i giornali se le contendono, e Aurora non è mai sazia di stare davanti all’obiettivo. Molti scatti me li lascia dicendo che a lei non interessano, che posso venderli a chi voglio. Una volta per tirare su un po’ di extra ho venduto alcuni scatti di Aurora a uno di quei giornaletti porno – sui quali si masturbano pubescenti e vecchi impotenti. Glielo dissi. Niente. Lei rimase allegra, tranquilla: la cosa da un orecchio le entrò e dall’altro subito le uscì. Lei è così, prendere o lasciare.

Fa freddo. Il riscaldamento non funziona. Non è servito a niente telefonare alla compagnia S****: uno di quei mocciosetti del call center mi ha risposto di stare calmo, che tutto si sarebbe risolto entro breve. Non si è risolto un cazzo. Ho chiamato di nuovo, un altro mocciosetto. Ho mandato a farsi in culo tutti quanti e siamo rimasti all’addiaccio.
Nonostante il freddo Aurora non ha rinunciato a mettersi in posa. S’è spogliata rimanendomi davanti tutta nuda, come mamma l’ha fatta: solo un paio di scarpe col tacco alto, numero 12. Forse per colpa del freddo impossibile un brivido m’è corso lungo la schiena. E’ stato un attimo. E’ passato, e le foto le abbiamo fatte senza altre complicazioni, lei nuda davanti all’obiettivo e io con l’occhio incollato alla Nikon.
Nevica di brutto e il crepuscolo invernale è oramai un sudario indelebile su persone e cose. Le strade sono tutte bianche, gli automobilisti sono stati sorpresi impreparati.
Provo a chiamare un taxi ma niente, non risponde nessuno, la linea è sempre occupata. D’andare a piedi non se ne parla neanche: il mio studio è ai margini della periferia cittadina. Aurora si è rivestita. Anche la debole luce crepuscolare sta scemando e non abbiamo una macchina con le catene per poter sgommare via verso casa.
Solo dopo un’ora di vani tentativi al telefono mi dichiaro sconfitto: “Per questa notte ci dovremo arrangiare. Dormiremo qui.”
Aurora non batte ciglio, s’avvicina allo stereo, guarda i cd e ne mette uno dentro il lettore: Leonard Cohen, tanto per cambiare. Lei lo adora e anch’io: abbiamo cantato, non so quante volte, tutte le sue canzoni, insieme. La sua voce di rasoio, roca e dolce allo stesso tempo, ci fa star bene. La voce di Cohen satura subito l’aria fredda: “As the mist leaves no scar/ On the dark green hill/ So my body leaves no scar/ On you and never will/ Through windows in the dark/ The children come, the children go/ Like arrows with no targets/ Like shackles made of snow…” *
Aurora canticchia a mezza voce: il pigolio d’un passerotto sul filo del rasoio! Fa tenerezza vederla così, indifesa e infreddolita, una madonnina nuda che ti guarda con i suoi occhi felini.
“Hai freddo, vero?”
“Non posso dir di no.” Sorride, mettendo in mostra un sorriso d’una bianchezza verginale.
Quasi mi si stringe il cuore a vederla così tremante, che si passa le mani sulle braccia nel tentativo di riscaldarsi almeno un po’. “Cohen mi fa sempre venire i brividi… caldi e freddi insieme.”
“Mi spiace per questa situazione.”
“Non è mica colpa tua.” Tossisce debolmente. “Ti aspettano?”
“No, sono libero, come un uccel di bosco.”
“Non hai trovato…”
“Non è facile. E tu?”
“Libera. Cioè no. Be’, un po’ con uno, un po’ con un altro, ma nessuna storia seria.”
“Dovremmo prepararci per affrontare la notte…”, le faccio notare, imbarazzato perché non c’è nemmeno una coperta, solo straccetti che uso per vestire le modelle che fotografo.
“Qui è tutto un ghiaccio.” Sorride e mi fissa con i suoi occhietti di gatta che va al lardo.
Scoppio a ridere e lei anche.
Ci accoccoliamo vicini vicini per tenerci caldi. Non fosse per il freddo, che ci fa accapponare la pelle e ci fa colare il naso, potremmo essere scambiati per una coppietta in cerca di un po’ di solitudine e di romanticismo.
“Quand’è che hai capito di esserlo?”
“Tanto tempo fa. Ti lascio immaginare che scandalo fu per i miei. Negli anni Ottanta se uno diceva che era gay lo crocifiggevano.”
“Perché, oggi no?”
Sorrido in tristezza: “No, non è cambiato poi molto in tutti questi anni.”
Lei m’abbraccia ma non per consolarmi: si stringe contro il mio corpo per cercare calore. Le dita le lascia scivolare sulla patta dei miei jeans, poi prende la mia mano e se la mette dentro le mutandine: “Lei è la passerina, lei è la vita.”
Resto in silenzio. Ma tolgo la mano da quel posticino caldo e serico e la porto sulle sue terga: “E questo è il mondo invece.”
Lei lascia che le mie dita esplorino il suo fondoschiena. Trema, non so se di piacere o per via del freddo. All’improvviso mi trovo le sue labbra incollate alle mie. Prima che possa obbiettare, la sua linguetta snella e astuta si fa strada nel cavo della bocca per incontrare la mia lingua. In sincerità pensavo peggio. E’ la prima volta che una femmina mi bacia, o meglio, è la prima che non ho rifiutato con pieno disgusto.
Continuiamo a pomiciare dimentichi del freddo a morderci le chiappe e non solo.
Sono dentro di lei, i nostri sessi congiunti nell’amplesso. E’ stata lei a prendere l’iniziativa, ne sono certo, perché io non avrei mai avuto il coraggio d’entrare dentro una femmina facendo appello alla mia sola volontà.
Lo facciamo per tutta la notte. Non per amore, non per sesso. Il nostro è un accoppiamento animale, di due esseri soli e infreddoliti, che si compenetrano per salvare i propri corpi dalla morte. Un incrocio di anime asessuate. Farlo con Aurora è stato tutto questo.

Ancora abbracciati quando uno spicchio di sole ci lava la faccia sporca di sonno.
“E’ mattino…”
“C’è il sole…”, bofonchio.
Parliamo come al solito. Entrambi sappiamo che la notte è alle nostre spalle e che niente fra noi è accaduto sul serio. Però Aurora ha un’ombra di tristezza che le solca il viso e che si sforza di mascherare col suo bel sorriso d’avorio. E’ un’ombra impercettibile, che forse soltanto io vedo. Che forse solo io m’illudo di scorgere, riesumando da chissà quali precordi dell’istinto animale un po’ di quell’inutile orgoglio virile tipico del maschio.
Dalla finestra il sole invernale ci guarda sonnacchioso, avvolto da un leggero alone di brume.
“A quest’ora non dovrebbe essere difficile trovare un taxi.”
“Se il telefono funziona, credo che avranno oramai messo tutti le catene.”
Funziona.
Il taxi arriva in dieci minuti.
Saliamo a bordo.
Lungo tutto il tragitto non parliamo, e per fortuna il taxista non è né un chiacchierone né un brontolone.
Aurora scende prima di me. La saluto semplicemente con un bacio sulla guancia. La guardo scivolare dentro il portone di casa sua. Adesso starà veramente al caldo.
Spiego al taxista dove abito. Non sto a indicargli quale strada gli conviene prendere per evitare il traffico e trovare la minuscola via dove ho la mia cuccia. Che si arrangi da solo, tanto io non ho fretta e posso sonnecchiare, senza a nulla pensare, adagiando il capo contro il finestrino appannato dal mio fiato. Il vetro è gelato, così tanto che mi brucia la pelle: è uno schiaffo, uno schiaffo non dissimile da quello che Aurora m’appioppò quando Pussy, la sua gatta, era morta e io non lo sapevo.
Ho sonno, tanto sonno: m’addormento con la guancia incollata al finestrino, cullato dal dolore di quello schiaffo nel tempo lontano ma non nello spazio.

* True Love Leaves No Trace, from “Death of a Ladies’ Man”, Leonard Cohen, 197

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