di Giorgio Galli
“Auschwitz, orrore e rimpianto”
L’ingresso del campo di Auschwitz (da Wikipedia)
Il 27 gennaio 2005 ero ad Auschwitz. Si facevano ancora i “viaggi della memoria”, in quel periodo: tutti gli studenti dei licei e delle università toscane erano invitati a parteciparvi. La crisi non aveva ancora imposto i suoi tagli all’educazione civica dei giovani. Una fiumana di studenti prese dalla stazione di Firenze il “treno della memoria”. Conobbi una mia compagna di viaggio nella fila del bagno, alla stazione. Mi guardò, mi disse: “Anche tu vai ad Auschwitz”. Non ho mai capito perché.
Il treno valicò le Alpi, passò attraverso l’Austria e la Repubblica ceca e ci portò alla stazione di Oświęcim, la cittadina non lontana da Cracovia che la storia ricorda come Auschwitz. In piena notte, in treno, le guardie ci svegliarono due volte, alla frontiera austriaca e a quella ceca. Bussarono negli scompartimenti, dissero Passkontrolle con le loro voci gutturali, e se ne andarono. Le cuccette puzzavano. Alle sei di mattina ci chiamarono per la colazione. Non avevo dormito neanche un’ora.
Passammo cinque giorni in Polonia. Non ci dettero un minuto di tregua. Di mattina, visita ai campi di concentramento, Auschwitz, Birkenau… Poi pranzo, visite alla città di Cracovia, al quartiere ebraico di Kazimierz, al cimitero ebraico, al museo… Di sera una doccia veloce e poi di nuovo a un concerto di musica klezmer, o alla proiezione di un film, o ad ascoltare le testimonianze dei reduci. Le pause duravano al massimo tre minuti. Non avevamo tempo per pensare. Nessuno rimaneva da solo: il mio gruppo era di trentasei persone, e ci muovevamo sempre tutti insieme. Credo fosse una misura protettiva: tenere mente e corpo impegnati per non prendere di pancia il dolore.
La sinagoga di Cracovia, a Kazimierz (da wikimedia.org)
La neve era incessante. La Vistola era gelata. La temperatura la sera scendeva a 25 gradi sotto zero. E io, che congelavo nel cappotto, non potevo fare a meno di immaginare il freddo che avevano patito i prigionieri, costretti a lavorare nudi in quei campi e a dormire in quelle baracche. Quando tornammo, portammo il freddo con noi: quell’anno, a Siena, nevicò fino al 5 di marzo.
Ricordo le distese di neve sui campi. La neve sul filo spinato. Me che tossivo come un tisico. Le canne fumarie. E ricordo le vetrate con gli oggetti dei deportati, cataste di valigie, scarpe, spazzolini, e capelli, una distesa di capelli, conservati dalla minuziosa follia dei nazisti.
Ricordo una carrucola che somigliava a quella d’un pozzo, era normalissima. Ma serviva a tenere sospesi per le braccia i prigionieri in punizione. Restavano così per ore. Alcuni morivano di dolore. Ricordo la storia d’un bambino talmente magro che non riuscivano a impiccarlo: il suo corpo non aveva abbastanza peso. Lo tirarono giù come se fosse una gallina da sgozzare.
Ricordo il fiore che qualcuno aveva deposto su uno dei letti, in una baracca. Ricordo degli episodi sgradevoli: una scolaresca faceva la foto di classe nel forno crematorio, con la professoressa che incitava a fare cheese. Ricordo compagni di viaggio fare battute nel campo. Ricordo le bordate antisemite della guida, e un ragazzo che addirittura attaccò polemica con un reduce. Qualcuno era venuto là per fare una vacanza, o addirittura con la speranza di abbordare qualche ragazza polacca (erano convinti che, sventolando venti euro in faccia a una ragazza di là, lei si sarebbe concessa subito).
Parrà strano, ma ricordo anche molta gioia. Al ritorno, sul vagone, ho capito cos’è l’allegria pura. Avevamo visto il peggio, avevamo imparato a fare un salto di mille metri sopra le preoccupazioni e tristezze delle nostre vite da adolescenti. Stavamo tornando con gratitudine alla vita di sempre.
Ho scritto questa poesia al ritorno. L’ho dedicata ai prigionieri di Birkenau, il campo più duro.
Qui la neve non smette di cadere
e gli alberi sono tutti spogli e bianchi,
sembran di marmo, congelati, senza tempo.
Dappertutto c’è filo spinato,
dove una volta ci passava la corrente.
E se mi volto si ergono torri,
torri di guardia, o di canne fumarie… Qui la neve
copre tutto, uccide tutto, anche i ricordi.
Qui a Birkenau non c’è fantasia,
forse neanche per immaginare come vivevano:
basta il terrore suscitato dal camino
così insulso all’apparire, e di cui sai
che serviva per bruciare i corpi morti.
Basta il fiore deposto sopra i letti
di legno sozzi e rotti,
sorretti da muri di pietra.
Basta quell’unica stufa per riscaldarli tutti
quando noi sentiamo freddo nei cappotti.
E se una riga di fumo sale in cielo
tutto, il cuore e il pensiero, si congela.
Qui tutto quello che arriva ci muore
anche il pensiero e il tempo, anche il fiore:
meglio allora gettare dei sassi,
quelli che gli ebrei lascian cadere sulle tombe:
sassi, non fiori, perché un sasso è per sempre
e perché un fiore, quaggiù, è troppo gentile.
Per saperne di più, consulta l'articolo originale su: