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Auschwitz: salvata dalla musica

Creato il 27 gennaio 2016 da Musicamore @AAtzori

Auschwitz: salvata dalla musica " Senza di essa, sarei morta". Sintetizza così la musicista francese ebrea, Violette Jacquet-Silberstein, internata ad Auschwitz a 17 anni e miracolosamente salvata dall'inferno di Auschwitz-Birkenau solo perché sapeva suonare il violino.

Per 15 mesi ha partecipato all'orchestra delle detenute. Quaranta "elette", autorizzate ad accompagnare la partenza dei kommandos di mattina e divertire le SS di domenica. La sua vita inizia come quella di molti altri immigrati.

Nata nel novembre del 1925 a Petroseni, in Romania, arriva in Francia all'età di 3 anni. Dopo un soggiorno a Boulogne-sur-Mer, i Silberstein si fermano a Le Havre. Il padre lavora come sarto, tutti e tre vivono nella stessa stanza, dormendo nello stesso letto. Cosa che non impedisce agli amici di passare a trovarli. Uno di questi è un violinista.

Violette non ha dimenticato l' Humoresque di Dvorak, che quest'uomo suona quella sera. La ragazza canticchia, bene. "Mi dicevano che avevo del talento, mi hanno messo al violino. Avevo 7 anni." La sua formazione progredisce tranquillamente, più influenzata dalle arie zigane ascoltate a casa che dagli studi classici. A 14 anni, l'esodo spazza tutto. Le strade, le campagne, Parigi, poi Lille, dove uno zio li accoglie. È là che il 1 luglio 1943 vengono arrestati dalla Gestapo, dopo una denuncia. Finiscono nel campo di Malines, il Drancy belga.

Infine, il 31 luglio, prendono il treno per Auschwitz . Appena arrivata, Violette viene separata dai genitori. Non li rivedrà più. Senza dubbio immediatamente gasati. "Della sorte di mia madre ho saputo subito dal primo giorno. Quando gliel'ho chiesto, la donna che ci tatuava mi ha indicato i due camini, lontano. Le ho chiesto se lavorava nella fabbrica. Mi ha risposto: 'Una fabbrica di morte'. E mi ha spiegato."

Lasciarsi morire o sopravvivere? In realtà, non è stata Violette a scegliere. Quando un SS passa nel blocco 9 per richiedere delle musiciste, non è in grado di alzare la mano. "Mi sembrava una cosa indecente. Due detenute con cui avevo fatto amicizia ci sono andate. Sono poi ritornate con vestiti nuovi e scarpe. Accettate." Violette cede alla pressione e si presenta a sua volta. "La direttrice dell'orchestra mi ha teso un violino. Ho massacrato La meditazione di Taide, di Massenet. Mi ha scartata." Ma, qualche giorno dopo, arriva al campo Alma Rosé. Figlia del violinista Arnold Rosé, nipote di Gustav Mahler , la musicista trentasettenne dirigeva un'orchestra a Vienna prima di essere deportata. Dopo una nuova audizione, prende Violette in prova. "È a lei che devo la vita" sintetizza Violette, mostrando la vecchia foto che troneggia su un mobile nella sua stanza. Violette inizia così la sua vita di musicista. Di notte, dorme nei blocchi comuni. Ma quando, all'alba, le altre detenute partono per andare a spaccare le pietre, lei ritma la loro partenza al suono di una marcia. Le prove continuano, interrotte a mezzogiorno da una doccia - "una al giorno, un privilegio" - e la zuppa. L'orchestra lavora sino alla sera e saluta con la musica il ritorno delle detenute. [...] Oltre alle marce militari quotidiane, ci sono i concerti domenicali. Riservati agli ufficiali, propongono un programma sinfonico, lirico o leggero. Ad Alma Rosé non era assolutamente concesso di deludere. "Non perché avesse paura dei tedeschi - precisa Violette - ma perché amava la musica. Del resto, i tedeschi avevano per lei un'ammirazione eccezionale.

Quando è morta, il 4 aprile del 1944, hanno innalzato un padiglione perché ci potessimo raccogliere. Erano musicisti. Gli stessi mostri capaci di uccidere a sangue freddo un bambino davanti alla madre potevano piangere all'ascolto di un Lied." Violette lo confessa. Se la musica costituiva un rifugio, le ha dato anche piacere. "Avevamo messo su un pezzo dvorakiano, un pot-pourri di musiche di Dvorak. L'adoravo... E le operette ungheresi. Pensavo ai miei genitori, ero triste, ma nello steso tempo felice." Pazzia della musica, capace di emozionare in qualsiasi luogo. Pazzia del campo, dove l'orrore quotidiano non impedisce né i piccoli momenti di gioia né lo scherzo. La musica e lo humour: dopo la Liberazione, è su questi due pilastri che Violette ha ricostruito la sua vita. Certo, ha smesso di suonare il violino. "Non per colpa del campo di sterminio. Solo perché non ero proprio brava." Allora si è messa a cantare, accompagnandosi con la chitarra, nei cabaret prima, poi sul palco del ristorante che ha aperto a Tolone. Quanto al riso, non perde occasione. [...] Per esempio attraverso le testimonianze offerte agli studenti delle scuole. "Mai cose piagnucolose, le odio. Anche nei blocchi più duri, le ragazze ridevano e cantavano." [...] "Ma Violette, mi dico, ci manca un po' di humour. Forse son vecchia, d'accordo, ma ditemi: vi sembro triste?"

N. Herzberg, Sauvée par la musique, in "Le Monde", 4 aprile 2009, trad. e adatt. di N. Marini

Tag: Alma Rosé, Auschwitz, campo concentramento, Dvorak, gestapo, Gustav Mahler, Malines, vienna, Violette Jacquet-Silberstein, violino


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