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Austerità e crisi

Creato il 20 giugno 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

Continuano gli interventi chiesti ad alcuni economisti su 5 o 6 politiche per rilanciare la crescita e L’OCCUPAZIONE PRODUTTIVA in Italia. Sono state già pubblicate le risposte di Paolo Pini, Paolo Pettenati, Marcello Messori, Vera Negri Zamagni, Stefano Zamagni, Anna Pellanda e Lilia Costabile. Oggi risponde:

Terenzio Cozzi, Prof. ord. di Economia politica, Università di Torino

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Il perdurare della crisi ha stimolato il dibattito sulle politiche di austerità, in particolare su quelle molto severe imposte in Europa ai paesi con i conti in disordine. La tesi che il rigore di bilancio potesse avere effetti espansivi è stata completamente screditata, oltre che dalle critiche teoriche, dai risultati di molte ricerche empiriche. La logica sottostante era che il risanamento del bilancio avrebbe reso possibile in futuro una minor imposizione fiscale che, a sua volta, avrebbe avuto l’effetto di rovesciare le aspettative negative inducendo fin da subito famiglie e imprese ad aumentare rispettivamente consumi e investimenti.

Purtroppo però la riduzione della domanda pubblica non è stata compensata da aumenti di quella privata. Le aspettative sono rimaste negative, la crisi è proceduta inalterata anzi si è spesso aggravata. Alla caduta della domanda interna non ha poi potuto portare molto sollievo quella estera perché l’austerità è stata simultaneamente imposta a diversi paesi europei. Per quelli extraeuropei, non giova certo la guerra valutaria scoppiata di recente.

Il rigore fiscale non stimola affatto l’espansione ma, al contrario, rischia di aggravare la crisi che, oltre a far cadere produzione, occupazione e redditi, influisce negativamente sulla possibilità stessa di risanare i conti pubblici. La caduta produttiva tende infatti a provocare maggiori disavanzi perché fa calare le entrate fiscali e fa aumentare le spese per cassa integrazione, sussidi di disoccupazione ecc. E tende anche ad aumentare il rapporto debito/PIL a causa dei moltiplicatori fiscali che misurano la riduzione di PIL provocata da una data riduzione della spesa pubblica (e quindi del debito).[1] Il rapporto aumenta se alla riduzione del debito corrisponde una riduzione maggiore del PIL, ciò che avviene normalmente. Tanto più elevato il valore del moltiplicatore tanto più si riduce la produzione e aumenta il rapporto debito/PIL.

Se ne deduce che l’Italia, che pur deve continuare a risanare i conti onde evitare violente reazioni dei mercati finanziari (oggi meno probabili, dopo gli interventi annunciati dalla BCE), non deve però eccedere nel rigore ma prendere atto che rallentare il risanamento significa renderlo più sicuro. Il processo di risanamento potrebbe infatti non terminare mai se l’eccesso di rigore dovesse impedire la ripresa della crescita.

Occorre dunque allentare il processo di austerità e puntare sulla ripresa, che è la via maestra per il risanamento dei conti. Ma è necessario qualche stimolo aggiuntivo per reperire più risorse e indirizzarle meglio allo scopo.

Per avere più risorse occorre, per le entrate, potenziare la lotta all’evasione fiscale e, per le spese, operare per la riduzione di inefficienze e sprechi concentrando la spending review nell’obiettivo di controllare gli acquisti di molti beni e servizi che spesso avvengono a prezzi spropositati.

Altri stimoli alla crescita dovrebbero essere cercati mediante un’opportuna revisione della struttura del bilancio, considerando attentamente i valori dei moltiplicatori. Fornisce maggiori stimoli la spesa pubblica o la riduzione delle imposte? Le più recenti ricerche empiriche, svolte nell’ambito del FMI e altrove, stimano concordemente che sono i moltiplicatori della spesa ad avere in media i valori più elevati, anche se il contrario è spesso sostenuto da coloro che giudicano negativamente l’espansione delle spesa pubblica in quanto tale.

Conviene però superare i valori medi dei moltiplicatori, per concentrasi su quelli delle singole componenti. Dal lato delle uscite, hanno valori molto elevati i moltiplicatori delle spese per investimenti e quelli per trasferimenti alle famiglie disagiate, mentre hanno moltiplicatori bassi quelle per trasferimenti generici alle imprese. Dal lato delle entrate, hanno i moltiplicatori più elevati le tasse e i contributi che gravano sul costo del lavoro e le imposte sui redditi minimi. Li hanno invece bassi le imposte sui redditi e sui patrimoni più elevati.

Se, per non violare i dettami europei, non è possibile espandere più di tanto i livelli del bilancio pubblico, rimane la possibilità di modificarne la composizione per ottenere effetti espansivi. Si debbono potenziare le spese con moltiplicatori alti quali quelle per pensioni minime, cassa integrazione e investimenti. Tra questi ultimi è opportuno privilegiare quelli che sono rapidamente attivabili anche perché, singolarmente considerati, non hanno costi molto alti. Esempi importanti sono i progetti per la messa in sicurezza del territorio, la manutenzione di edifici scolastici e altre opere pubbliche. Per compensare l’aggravio di bilancio, si dovrebbero ridurre i trasferimenti generici alle imprese.

Per le entrate, è opportuno ridurre le imposte sul lavoro e quelle sui redditi bassi, esentare gli investimenti in ricerca e innovazione e compensare il minor gettito tassando di più i redditi e specialmente i patrimoni elevati. Rendere quindi progressiva l’IMU, sgravando soltanto i proprietari di una abitazione modesta.

Operando con questi criteri è possibile dare una spinta alla ripresa senza rischiare di squilibrare troppo il bilancio.


[1] I moltiplicatori sono spese o risparmi che producono un effetto moltiplicato rispetto all’entità della spesa o del risparmio fatto.


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