“Andre, questo è l’Oceano pacifico”
“Pacifico, questo è Andrea”
“Vuoi dirgli qualcosa? E’ stato facile o difficile arrivare sin qui?”
“Facile”
“Chi guidava la moto?”
“Io”
“Dai Andre, diciamocelo: Siamo degli eroi”
“Eroi, papà”
Gira su se stesso. Si lancia in una piccola danza della pioggia, uno spontaneo rito di ringraziamento. Ci guardano. Chiediamo se possono farci una foto. L’autostima è alle stelle, la stanchezza anche. Ce l’abbiamo fatta, non abbiamo paura di niente.
Delicato, ti fa vibrare. A volte ti strappa una lacrima, tante volte ti fa sorridere. Dopo averlo chiuso, ti lascia la speranza e la voglia di provare a far deviare, seppure di poco, il tuo destino.
E’ il libro, che vi consiglio, di Fulvio Ervas “Se ti abbraccio non aver paura”, edito da Marcos y Marcos, che descrive un viaggio molto particolare. Quello intrapreso da Franco Antonello, un tipo parecchio tosto, con suo figlio, Andrea, autistico, su una moto. Centoventitré giorni, 38 mila chilometri, da Miami negli Stati Uniti ad Arraial d’Ajiuda in Brasile, organizzati da Franco, 51 anni, di Castel Franco Veneto, per festeggiare i 18 anni di suo figlio.
A Franco, che è imprenditore ed editore, nonché presidente della Fondazione “I bambini delle fate”, a sostegno dei bimbi affetti da autismo e dei loro familiari, i medici avevano sconsigliato un viaggio così lungo e faticoso. I ragazzi autistici – si sa – hanno bisogno di una vita abitudinaria. Ma lui no. Ha fatto di testa sua. Con il sostegno di sua moglie ha preparato quest’avventura. A dire il vero senza grande impegno.
“L’idea di un grande viaggio – è scritto a pagina 19 – ha cominciato a lavorare dentro in silenzio. Come un virus. Senza manifestazioni evidenti. Non sentivo il bisogno di un progetto dettagliato. Per Andrea le ore di ogni singolo giorno sono sempre un imprevisto: sarà così anche per me, e andrà come deve andare. Una mattina sono andato incontro ad Andrea che tornava da scuola, con il suo passo veloce. L’ho visto arrivare e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto fare una vacanza speciale. Lui s’è lasciato distrarre dai panni stesi nel cortile di una casa. E’ partito di corsa e ha cominciato a raggrumare le lenzuola, spostare le mollette, raddrizzare i calzini”.
Insieme per quattro mesi hanno detto addio a terapie di ogni tipo: tradizionali, sperimentali, spirituali, provate per anni senza successo.
I due sono così partiti e hanno viaggiato uniti nel tempo sospeso della strada. Tagliando l’America in moto, si sono persi nelle foreste del Guatemala. La normalità è stata abolita, e nessuno dei due sapeva chi fosse diverso. Per quattro mesi è stato Andrea ad insegnare a suo padre ad abbandonarsi alla vita. Andrea che accarezzava coccodrilli, abbracciava camerieri, sciamani, toccava la pancia agli sconosciuti per sentire meglio le loro emozioni. E seminava pezzetti di carta lungo il tragitto, come Pollicino che prepara il ritorno.
Per centoventitré giorni Franco è riuscito a scacciare la sua più grande paura. “Quella che Andrea – si legge a pagina 318 – trascini la sua esistenza in qualche contenitore: refettorio, regole, farmaci. Senza relazioni vere, senza affetti veri. Immerso in una solitudine che andrà a sommarsi alla sua. Non è facile farsene una ragione. Adesso c’è ancora energia e la mente riesce a far ruotare la mia esistenza attorno alla sua. Ma il tempo non le è alleato, non ci sarà un giorno, nel futuro, in cui Andrea improvvisamente riuscirà a congiungere il suo mondo con questo mondo. Un giorno, in cui, trovando me su una panchina, lui si avvicinerà di soppiatto, con quel suo sorriso, per dirmi: va bene papà, puoi andare dove vuoi adesso, me la cavo da solo”.
Ma Franco non molla. Sì, il verdetto del maggio ’96, impietoso, ha ribaltato il suo mondo e la malattia diagnosticata quando Andrea aveva due anni e mezzo è stata per lui e la sua famiglia come un uragano, come sette tifoni. Però, per amore di suo figlio, va avanti come un cavaliere che non si arrende e continua a sognare.
Cinzia Ficco