Oggi, chiacchierando con una cara collega, ci siamo confrontati su quanto sia difficile allargare lo scambio culturale al di fuori di cerchie molto ristrette e dall'inevitabile dimensione autoreferenziale. Dinamiche relazionali così ristrette finiscono con l'atrofizzare, oltre all'entusiasmo, anche il bisogno di rinfrescare quel po' che negli anni si è imparato, figurarsi la voglia di imparare cose nuove.
La resistenza, che per molti diventa più cherenitenza, potrebbe essere dovuta a pigrizia, oppure, certo, a ignoranza di fondo. Ma qui entra in gioco un modo tutto particolare di concepire l'ignoranza: si tratta di un'ignoranza come dato acquisito e come punto d'arrivo, un'ignoranza esistenziale, senza appello. Ci si arrende alla propria ignoranza e c'è perfino chi se ne compiace, piuttosto che sfruttare il confronto per apprendere qualcosa di nuovo.
Compiacersi di quelle quattro cose e di quei libri che una volta si leggevano, di quella formazione dissolta nelle nebbie di un passato più o meno lontano è becero, ma almeno simile villania non mi riguarda. Quello che invece mi interessa è il senso di annegamento, l'ansia di chi annaspa alla ricerca di un confronto che sia continuativo e produttivo. Però è anche vero che identificare la natura di questasocial catena è meno facile di quanto si pensi.
Due sono le tendenze, e ben distinte: diciamo che può prevalere un approccio didattico - i professionisti dell'educazione si scambiano esperienze e (per i più generosi) materiali - oppure un comprensibilissimo "egoismo conoscitivo" legato alla passione per le proprie materie. Sul piano operativo, entrambi gli aspetti vanno tenuti distinti e vanno coltivati pari grado, ma con la consapevolezza che per un professionista ciascuno dei due è una faccia dell'altro.
Una didattica senza cultura è inconcepibile e, di contro, una cultura che non voglia essere trasmessa non ha nulla a che fare con l'insegnamento: i ragazzi non sono l'alibi per poter continuare indisturbati le proprie letture autoreferenziali, ciò nuoce sia ai professori che agli alunni. D'altra parte, non può esistere una buona didattica senza un gusto spiccato per la ricerca e un orientamento preciso per le proprie discipline, ovvero senza una scelta di vita.
E, nel difficile equilibrio necessario a contemperare due diverse spinte, sopraggiunge un ulteriore dato: se un docente deve crescere, deve aggiornarsi, formarsi, in che misura ciò può essere strutturato secondo percorsi standard, ovvero secondo vie accademiche ufficiali (lasciamo perdere quanto prestigiose)? Una volta conseguito un titolo di studio, che un qualche valore (legale o no, qui non importa) deve pur averlo, perché - e con quale autorevolezza scientifica - si centralizzerà il momento dell'aggiornamento?
Una laurea - e ancor più un dottorato - sono e devono essere pensati quali avvio a un modo di penetrare il mondo, forniscono gli esempi e gli strumenti di un mestiere del vivere in una comunità civile e sociale, in una comunità scientifica che include tutti. Perché irrigidire il prosieguo? D'altra parte, bisogna dirlo, come si fa a garantire o a certificare agli alunni e alle famiglie l'autoformazione di un professionista che già dispone dei necessari titoli di studio e dunque spesso si sente autorizzato a non toccare più libro (lamentando poi quest'atteggiamento nei suoi ragazzi)?
Da grandissimo fautore dei momenti di incontro tra colleghi, però, io mi pongo un'altra domanda, per me decisiva: che cosa vuol dire, davvero,autoformazione? Si può intendere o, per essere più radicali, si può accettare l'interpretazione esclusiva dell'autoformazione dei professori quale momento di "studio autonomo", ovvero solipsistico? Possibile che in quel prefisso auto- non si possa includere la capacità dei docenti di organizzarsi in gruppi di ricerca e di studio?
Se è vero che i contesti accademici sono spesso spregevoli, come si fa ad accettare che una persona di medio-alta cultura accetti o addirittura desideri studiare - quando lo fa - senza un momento istituzionale e e strutturale di confronto? Parlo proprio di precisi percorsi di crescita, non di episodici e ameni circoli di lettura, ma proprio di motori che spingano a fare di certo studio un momento di crescita di tutto un circuito - una rete - di colleghi.
Non esiste una cultura umanistica che, accanto alla necessaria lettura personale, al momento meditativo e di solitudine non contempli la presenza dell'altro. Ecco, di questo io non mi do e non mi darò pace: dell'ignavia di fronte alla propria insufficienza e del tentativo autocratico e assolutistico di colmare la propria inadeguatezza con una semplice lettura personale. Non funziona e non funzionerà mai, ci vuole una comunità, un progetto, un forzarsi per incanalare quel sapere, un cammino entro il quale ci si possa riconoscere intellettuali e didatti, cioè - solo a quel punto - professori.