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AUTÓMATA | Un film di Gabe Ibáñez

Creato il 23 marzo 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

film_automata_banderasdi Leone Maria Anselmi

Scenari apocalittici, popolazione mondiale decimata, ecosistema irrimediabilmente alterato da disastrosi mutamenti climatici, radioattività diffusa, habitat insalubre sulla quasi totalità del pianeta, piogge acide: tutti ingredienti del fortunato filone dei film catastrofici ma, lo diciamo subito, questa pellicola del regista spagnolo Gabe Ibáñez si pone, a buon diritto, su un piano decisamente superiore.

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Anno 2044: le tempeste solari hanno costretto l’umanità sopravvissuta a rifugiarsi in metropoli fatiscenti equipaggiate con precarie schermature per attutire gli effetti dannosi delle radiazioni. Pur se tecnologicamente evoluta – con al fianco un esercito di efficientissimi cyber-robot impiegati come operai in pressoché tutti i mestieri – l’umanità non ha potuto con ogni evidenza modificare la propria biologia per adattarsi ai mutati equilibri ambientali; alla popolazione residua, concentrata in piccoli agglomerati urbani, spetta una magra sopravvivenza destinata a esaurirsi nel giro breve di una generazione o due. Autómata si apre con una carrellata di fotografie in bianco e nero, una sequenza di immagini commoventi con significativi episodi di felice interazione tra uomini e robot; l’umanità, stando a questi scatti, sembra contenta e soddisfatta di questa convivenza, tutt’altro che difficile, e ne gode sul piano pratico tutti i benefici: i robot antropomorfi sono chirurghi precisi e infallibili, badanti pazienti e affidabili, operai metodici e infaticabili, all’occorrenza anche piacevoli conversatori, e dove c’è un lavoro sporco da svolgere ecco farsi avanti l’automa di turno. Elettro-domestici a tutti gli effetti, dunque, e fin qui tutto bene. Nessuno però avrebbe mai immaginato che, mutate le condizioni di vita sul pianeta, questi androidi si sarebbero progressivamente sostituiti agli uomini per ripopolare la superficie terrestre. Ecco affacciarsi lo spettro della tecnologia pensante, della robotica intelligente sganciata definitivamente dal controllo umano.

Autómata scavalca agevolmente i triti toni fantascientifici e riesce a descrivere, in modo per certi versi credibile, un futuro potenziale. Non la macchina che si rivolta contro l’uomo (tema già abusato più volte dalla cinematografia di genere), ma la macchina che sopravvive all’uomo, scalzandolo dal ruolo di specie dominante. Progettati a immagine e somiglianza dell’uomo gli automi si rivelano capaci di elaborare finanche sentimenti, di stringere relazioni complesse e di pensare in modo progettuale, diretta conseguenza di un software predisposto dall’uomo, un programma protetto da due protocolli di sicurezza; finché qualcuno (o qualcosa) non interviene a violare questi protocolli, contribuendo così al processo di umanizzazione degli automi. L’eroe umano (interpretato da un maturo Antonio Banderas) si muove come un alieno sulla Terra, come un extraterrestre su una sconosciuta landa desertica, alla disperata ricerca di un’oasi di sopravvivenza per sé e la sua famiglia, una piccola nuova generazione di speranza contro un presente arido e disumanizzato. Con ogni mezzo a sua disposizione l’eroe tenta di impedire che gli automi prendano il sopravvento, salvo poi scoprire in loro più umanità di quanta non ve ne sia negli uomini biologici. Il film, al di là di certe pieghe della storia e degli immancabili effetti speciali (peraltro riuscitissimi) – ottima la resa visiva dell’interazione tra uomini e robot – ha il merito di stimolare riflessioni su più livelli, e di aprire finestre che mai si vorrebbero spalancate sul futuro del pianeta.

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Molto efficaci sul piano visivo le scenografie di Patrick Salvador che svelano una tecnologia al contempo avveniristica e obsoleta, un’inquietante commistione tra sofisticata nanotecnologia digitale d’ultima generazione e riadattate apparecchiature vintage. La fotografia di Alejandro Martínez esaspera le atmosfere spente e stinte, un’umidità stillante esalazioni tossiche, fumi, grigiori, prospettive asfittiche.  Dappertutto trionfa, impassibile, immarcescibile, il non biodegradabile, il rifiuto dell’uomo, lo scarto, l’epifania della plastica. Brandelli infangati di cellophane, bottiglie di plastica accartocciate, lamiere arrugginite, vecchi motori, oli esausti, rottami di una civiltà evoluta sepolta sotto i suoi stessi ritrovati tecnologici. Autómata è una co-produzione tra Spagna e Stati Uniti, ed è stato realizzato con un budget complessivo di quindici milioni di dollari; gran parte delle riprese è stata effettuata in Bulgaria (nei New Boyana Film Studios di Sofia).

Il film di Ibáñez non ha pretese autorali – la sceneggiatura è firmata dallo stesso Ibáñez, con la collaborazione di Igor Legarreta e Javier Sánchez Donate – ma nemmeno sfora più di tanto nel catastrofismo sentimentale hollywoodiano. Autómata è semplicemente un bel film, esteticamente interessante, sfaccettato e ricco di spunti. In primo piano la questione (attualissima) della fragilità del pianeta, la sua condanna e insieme la sua speranza.

Leone Maria Anselmi

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 22 – Marzo 2015.

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