Traiettorie del Capitale – di Anselm Jappe
E' banale dire che stiamo vivendo un'epoca di enormi cambiamenti a livello tecnologico, che tutto diventa sempre più miniaturizzato e più veloce. Ciò che distingue un periodo storico da un altro, non è solamente la tecnologia, ma, soprattutto, i rapporti sociali. E, da questo punto di vista, ci troviamo più o meno nella stessa situazione che c'era nel XIX secolo, quando Karl Marx elaborò la sua critica del capitalismo. Soprattutto, se non consideriamo i rapporti sociali solo nella percezione della dominazione visibile da parte di una classe di persone - i proprietari dei mezzi di produzione - sugli altri gruppi sociali, costretti a vendere la loro forza lavoro. Ma se intendiamo per rapporto sociale, anche e soprattutto, le categorie fondamentali della società capitalistica: il lavoro e il valore, la merce e il denaro. Queste sono le forme, storicamente concrete, che prendono le attività produttive umane. Esse non sono naturali e non si trovano affatto in tutte le forme di società, tutt'altro. Dopo una lunga gestazione, a partire dalle loro forme embrionali, il lavoro e il valore, la merce e il denaro, il plus-valore e il capitale si sono imposti al centro della vita sociale a partire dalla rivoluzione industriale, e da oltre 250 anni queste categorie hanno continuato ad espandersi sopra aree sempre più ampie della vita umana, sia in senso geografico che all'interno delle società capitaliste, fino allo stadio attuale, dove non c'è praticamente alcun aspetto della vita che non sia determinato dal lavoro e dal valore, dalla merce e dal denaro, o dalle loro forme derivate.
Nella società moderna basata sulla produzione di merci, il lavoro ha un aspetto duplice: è sia lavoro astratto che lavoro concreto. Tuttavia, questi non sono due diversi tipi di lavoro ed il lavoro astratto non ha nulla a che fare con il lavoro immateriale: una confusione terminologica costantemente mantenuta da alcuni autori. Ogni lavoro, indipendentemente dal suo contenuto, ha un lato astratto, vale a dire che costituisce semplicemente un dispendio di energia umana misurata dal tempo. Il valore di una merce, come Marx ha dimostrato, non dipende dalla sua utilità, né dal desiderio che suscita, ma dalla quantità di lavoro indifferenziata, di lavoro astratto, che essa rappresenta. Tale valore si esprime per mezzo di una particolare merce: il denaro. Nella società capitalista, la produzione di beni d'uso è un fattore certamente indispensabile, però sempre subordinato alla produzione di quella merce che è l'unico scopo di tutto il processo produttivo: il denaro. Molto prima della questione della distribuzione del plus-valore, tra i diversi attori della produzione, la società di mercato si caratterizza attraverso questo processo anonimo ed automatico di trasformazione di ogni attività concreta in una quantità precisa di valore e denaro.
Detto ciò, alla domanda se sia, attualmente, possibile uscire dalla società del lavoro, grazie all'automazione che riduce il lavoro ad un parte infinitesimale, la risposta è: sì e no. Sì, tecnicamente, ma No, socialmente.
Il capitalismo è inseparabile dalla rivoluzione industriale. Fin dal suo debutto, ha cominciato a sostituire il lavoro vivo con la tecnologia, con le macchine. Questo è il meccanismo della concorrenza che spinge, pena l'eliminazione, i proprietari di capitale a far lavorare i propri operai su macchine sempre più efficienti, in modo da poter vendere i prodotti a prezzi sempre più economici. Però, questo rinnovamento tecnologico incessante non beneficia tutti i lavoratori e tutta la società nel suo complesso. Il filosofo inglese John Stuart Mill, generalmente considerato un cantore del capitalismo, aveva già ammesso, verso la metà del XIX secolo, che qualsiasi invenzione fatta per economizzare lavoro non ha mai permesso a nessuno di lavorare di meno - ma solo di produrre di più nella stessa unità di tempo. Anche la riduzione dell'orario di lavoro, negli ultimi due secoli, non è stata una riduzione del lavoro effettivo, in quanto è stata solitamente accompagnata da una intensificazione del lavoro stesso - Henry Ford introdusse, per primo, la settimana di otto ore nella sua fabbrica, intorno al 1914, solo dopo che gli studi dell'ingegnere Taylor avevano dimostrato che, con l'organizzazione scientifica del lavoro, si poteva produrre più di quanto si producesse con le dieci ore.
Ma, in modo paradossale, questa riduzione del lavoro necessario per la produzione di ogni merce, ottenuta per mezzo della tecnologia, se è stata la forza motrice dello sviluppo capitalistico, e l'arma con cui ha conquistato il mondo in estensione e in profondità, è stata anche, fin dall'inizio, il fattore che lo ha messo più in crisi. In effetti, è solo il lavoro vivo che crea il valore. Le macchine si limitano soltanto a trasmettere il loro valore, determinato dal tempo che è stato necessario alla loro fabbricazione. La tecnologia non crea nuovo valore. Ogni capitalista, impiegando nuove tecnologie, genera profitto supplementare per se stesso, però contribuisce a far diminuire la massa di valore complessivo, e quindi contribuisce a minare il sistema capitalistico in quanto tale. E 'vero che l'aumento della quantità di produzione, insieme ad altri fattori, ha compensato questa caduta della massa (e non solo del tasso) di valore e plus-valore; ma la tendenza continua a produrre ed i meccanismi di compensazione funzionano sempre peggio. Secondo la scienza economica borghese, il lavoro semplicemente si muove, e la riduzione del lavoro nell'industria verrebbe compensato dall'enorme aumento del lavoro nei servizi. Tuttavia, tutto il lavoro non è produttivo, in quanto contribuisce a riprodurre il capitale investito. Seguendo le indicazioni di Marx, si può dimostrare che molti servizi, come istruzione e salute, e i servizi pubblici generali e le attività dello stato, compresa la creazione e la manutenzione delle infrastrutture, non aumentano la massa di valore complessivo, anche se degli agenti economici particolari possono creare profitto. Questa diminuzione in valore (e plus-valore) globale non è solo una deduzione teorica, bensì costituisce l'unica spiegazione possibile per il decollo dei mercati finanziari, e del credito, a partire dagli anni '70, allorché la simulazione e il consumo anticipato dei guadagni previsti per il futuro sono andati a sostituire un'accumulazione reale sempre più assente.
Non è un caso che gli anni '70 abbiano anche visto l'inizio dello sviluppo della microelettronica e della "terza rivoluzione industriale", basata sull'informatizzazione. Così, la riduzione del lavoro vivo, su scala globale, ha conosciuto un'accelerazione decisiva; in molte merci - come il software riproducibile quasi senza sforzo in un numero virtualmente illimitato di copie - la quantità di lavoro "contenuto" è scesa a dosi "omeopatiche". L'affermazione secondo la quale il settore dei servizi è in grado di assorbire la forza lavoro "razionalizzata," diventata superflua nel settore industriale e materiale, viene confutata tutti i giorni dalla forte riduzione dei servizi da parte delle politiche di austerità neo-liberiste, e più in generale da un tasso di disoccupazione "reale" intorno al 20%. La riduzione del lavoro causata dalla microelettronica non è stata per niente compensata dall'avvento di nuovi prodotti la cui produzione richieda lavoro vivo (come accadde con l'industria automobilistica).
Se quello cui stiamo assistendo è una fuoriuscita dalla società del lavoro, non è affatto un'uscita pacifica, ma piuttosto un dramma. L'idea, tuttavia, è bellissima: le macchine che lavorano al nostro posto.
In realtà, la forza lavoro è diventata una merce molto difficile da mettere sul mercato, ed è ancora più difficile ottenere un prezzo conveniente. Allo stesso tempo, la riuscita di questa vendita rimane un requisito indispensabile per continuare ad essere un vero membro della società, per non essere l'oggetto di una carità pubblica che si riduce sempre più.
Tocchiamo qui il problema di fondo: nella società capitalistica, il lavoro, indipendentemente dal suo ruolo effettivo nella produzione, è la "mediazione sociale" principale.
Il lavoro è ciò che unisce gli individui, che altrimenti rimangono separati, ed è ciò definisce il posto di ciascuno nella società. Così, il calo costante del lavoro necessario alla produzione di ciò che serve alla vita individuale e collettiva - diminuzione che potrebbe costituire una buona notizia - invece getta nella crisi e nel caos il capitalismo, ma purtroppo, vi getta anche tutti gli esseri umani che vivono su un pianeta interamente determinato dalla dinamica cieca, distruttrice e autodistruttiva del capitale.
Non è più possibile, oggi, immaginare una ribellione dal punto di vista del lavoro vivo e dei suoi portatori, nemmeno sostituendo il classico proletariato, dalle mani callose, con il lavoratore informatico o immateriale. In verità, è sempre stato un paradosso quello di fare una critica del capitalismo dal punto di vista del lavoro, in quanto il lavoro è parte integrante di questo sistema, ed esiste solo laddove esiste il valore e la merce. Nello stesso Marx, la critica del lavoro e la critica dal punto di vista del lavoro coesistono in una certa maniera, e non senza contraddizioni. Naturalmente,esso consiste dell'attività umana volta ad ottenere ciò che è necessario all'uomo, o ciò che desidera. Ma nella società pre-capitaliste, non c'era una separazione generalizzata tra quello che noi chiamiamo lavoro e le altre attività, come il gioco, il rituale, l'affermazione della comunità. Non esisteva neanche il termine. E, soprattutto, ogni attività era specifica al suo scopo. E' solo nella società moderna, capitalista e industriale, che tutte le attività sono considerate senza riguardo per il loro contenuto, e viene misurato solo il tempo necessario alla loro produzione, per cui si vedono, in un giocattolo o in una bomba, solo due diverse quantità della stessa sostanza indifferenziata: la sostanza lavoro che dà il valore.
Ciò che è diverso nella società capitalistica, è il ruolo sociale del lavoro: non è più soggetto, in quanto mezzo, alle decisioni prese in altri ambiti sociali, come la politica o la tradizione. E' il lavoro stesso ad essere la mediazione sociale universale. Ciò può essere visto nel ruolo che ha l'economia: si è emancipata dalla società, in cui è nata come la sua serva, per mettere, al contrario, tutta la società al suo servizio.
Karl Polanyi ha chiamato questo processo lo "sdradicamento" (disembedding) dell'economia. Quello che vediamo ora - gli Stati e le popolazioni che guardano con ansia alle "reazioni dei mercati finanziari", come ai segni di collera di una divinità capricciosa ed esigente - non è il risultato di una cospirazione di avidi banchieri che agiscono in collusione con i politici corrotti, ma costituisce lo stadio, più o meno finale, di questo sradicamento dell'economia di mercato. Uno sdradicamento consustanziale, co-estensivo all'economia di mercato stessa, cui non può essere opposto un improbabile "ritorno alla politica" che sarebbe in grado di imporre "una maggiore regolamentazione". La politica contemporanea è totalmente impotente se non ha dei mezzi finanziari a sua disposizione. Si può immaginare una rottura dell'economia di mercato in sé, ma non possiamo immaginare di dargli una forma molto diversa dalla sua forma attuale. Il suo carattere predatorio, fino all'autodistruzione, deriva dal fatto che essa ha già esaurito tutte le sue altre possibilità di funzionamento.
Difendere il punto di vista del lavoro, dunque, non significa altro che schierarsi, nella lotta attorno alla distribuzione dei frutti del valore della produzione, per una delle parti che contribuiscono alla creazione di valore. Questo può essere moralmente giustificato, perché quelli che vivono vendendo la loro forza lavoro sono generalmente più numerosi, e perché traggono meno benefici dalla loro partecipazione a questa creazione. Ma questo conflitto, conosciuto nelle sue forme più antagoniste come la lotta di classe, non conduce, in quanto tale, al di là del sistema basato sul lavoro astratto e sul valore, sulla merce e sul denaro, e spesso ne costituisce uno dei motori del suo sviluppo.
Si assiste, da almeno due decenni, ad un forte sviluppo di varie forme di critica del lavoro. A lungo, promossa solo da piccoli gruppi, soprattutto nei circoli artistici, ma odiata da tutti i marxismi tradizionali, ed anche dagli anarchici e dall'estrema sinistra , la critica del lavoro si è diffusa man mano che si sviluppava, in strati sempre più ampi della popolazione, la sensazione di essere diventati veramente "superflui", in termini di economia capitalista. Si danno due tendenze principali nella critica del lavoro:
La prima tendenza mette l'accento principalmente sul carattere sgradevole della grande maggioranza dei lavori che siamo obbligati a svolgere oggi, e dice che la tecnologia ci può liberare. Questa è spesso una sorta di elogio della pigrizia o dell'indolenza. Si postula, frequentemente, il ricorso allo stato sociale come alternativa al lavoro individuale. Il valore morale del lavoro - la sua vera santificazione - ha accompagnato l'intera storia del capitalismo, a partire dall'"etica protestante" e dall'opposizione dei borghesi alle classi parassitarie degli aristocratici e dei preti. Ed è stata spesso portata al suo apice dal "movimento operaio". La dissoluzione dell'etica tradizionale del lavoro ha fatto dei progressi incredibili negli ultimi anni, presso un vasto pubblico. Anche la difesa delle 35 ore e della pensione a 60 anni indica che un gran numero di persone pensa che si possa fare di meglio nella vita, che lavorare! Più specificamente, nel mondo degli hacker è idea diffusa che, grazie alla tecnologia digitale e alla riproducibilità pressoché infinita dei prodotti informatici, si possa accedere ad un'epoca di abbondanza, e se questa possibilità non è ancora stato tradotto in realtà - dicono - è dovuto al dominio politico dei proprietari del capitale
In questi ambienti, si ama evocare, riferendosi a un passaggio dei Grundrisse di Marx, un "general intellect", che sul piano tecnico si troverebbe già al di là della logica del mercato, e che con un intervento politico potrebbe emanciparsi dai "parassiti" proprietari dei mezzi di produzione. Malgrado tutte le arie iper-moderne, questo approccio si limita a riproporre modelli del marxismo dell'inizio dello scorso secolo. C'è sempre la stessa fiducia nei benefici del progresso e nello sviluppo delle forze produttive - una fiducia che lascia perplessi. Quello che gli esseri umani non sono più in grado di fare - vale a dire raggiungere un'organizzazione consapevole della vita sociale - viene affidato alle macchine. La rivoluzione digitale dovrebbe condurre gli uomini verso l'uscita dal capitalismo. A dire il vero, essa ha portato alle estreme conseguenze la logica del capitalismo e, soprattutto, ha potentemente messo in crisi la produzione di valore e l'accumulazione di capitale. Ma la crisi non coincide con l'emancipazione sociale, e il mondo digitale non costituisce, in quanto tale, un "al di là" della logica del capitalismo. Il computer, come strumento tecnico, porta tanta emancipazione sociale quanto la ruota o la stampa. Non è possibile andare oltre il capitalismo in una sola zona, definita dalla sua tecnologia.
Le speranze riposte nella rivoluzione digitale, spesso fanno ricorso al concetto di "appropriazione", cui vienee associato, più di recente il concetto di "comune" e di "bene comune". E 'vero che tutta la storia, e la preistoria, del capitalismo è stata la storia della privatizzazione delle risorse che prima erano condivise, con il caso esemplare delle "enclosures" in Inghilterra. Secondo una prospettiva largamente diffusa, almeno negli ambienti informatici stessi, la lotta per l'accesso libero e illimitato alle risorse digitali è una battaglia che ha la stessa importanza storica - ed essa sarà, dopo secoli, la prima battaglia vinta dai sostenitori del libero uso comune delle risorse.
Tuttavia, questo ragionamento presenta diversi difetti. In primo luogo, i beni digitali non sono beni essenziali.Disporre sempre, e gratis, dell'ultima canzone o dell'ultimo video clip può essere simpatico - ma il cibo, il riscaldamento e l'alloggio non sono scaricabili, e sono invece soggetti ad esaurimento e ad una sempre maggiore commercializzazione. Il file-sharing può sembrare una pratica interessante, ma costituisce solo un epifenomeno in relazione alla scarsità di acqua potabile nel mondo o al riscaldamento globale. Si tratta in ultima analisi, di un progetto tecnocratico, paragonabile al ruolo positivo ed emancipatore che alcuni volevano assegnare, negli anni '60, alla cibernetica, come regolatrice dei sistemi sociali, con la promessa di liberarci dal dominio e dall'arbitrio. La proposta di delegare direttamente alle macchine la risoluzione dei problemi sociali, contiene almeno una verità involontaria: rende evidente il carattere sistemico ed anonimo della dominazione nella società di mercato. In una borsa dove gli scambi sarebbero completamente determinati dal software, i "traders" con le loro brave braccia alzate per aria sarebbero ridotti al livello di accessori folcloristici, e con tutti i disastri che, per gli uomini in carne ed ossa, deriverebbero da queste decisioni automatiche, sarebbe sempre l'immagine perfetta di quel "soggetto automatico" di cui parla Marx per descrivere il valore di mercato.
Per quanto si possano spingere i limiti all'espansione del capitalismo alle estreme conseguenze (per esempio, con le borse dove lo scambio avviene alla velocità della luce), si finisce sempre per sbattere contro dei limiti assai vecchi: le stesse strutture "metafisiche" della merce, il "feticismo della merce" di cui parla Marx e che ci dice che abbiamo programmato le nostre forze sociali sugli oggetti che produciamo, ma da cui noi crediamo di dipendere.
L'altra forma di critica del lavoro pone soprattutto il problema del suo ruolo nella società. Non si tratta tanto di sostituire lavoro vivo con la tecnologia perché passiamo poi il nostro tempo a controllare macchine e computer. Il ruolo stesso della tecnologia nella società, non dipende soltanto dalla struttura tecnologica in sé, ma anche dalla società che lo crea. Finché esiste la duplice natura del lavoro - concreto ed astratto - si lavorerà sempre, non per produrre delle cose utili o desiderabili, ma solo per aumentare la massa di valore. Noi continueremo a produrre, non importa cosa, non importa come, non importa con quali conseguenze, purché quello che produciamo possa trasformarsi, sul mercato, in una somma di denaro. E si lavorerà, necessariamente, sempre troppo. Mentre è sicuro che le nuove tecnologie possono servire parecchio per difendere il sistema capitalista contro le conseguenze di anomia del prodotto stesso - basta pensare al rapporto tra nanotecnologie e tecniche di monitoraggio - nessuna tecnologia può dispensarci dal compito di organizzare la nostra vita sociale in modo diverso. Non si va a battere il capitalismo sul terreno della tecnologia. Il filosofo tedesco Günther Anders aveva già parlato, ora è più di mezzo secolo, di "obsolescenza dell'uomo": l'immaginazione dell'uomo e la sua capacità di comprendere le conseguenze delle sue invenzioni non si evolvono alla stessa velocità dei dispositivi che crea. Anders non aveva ancora visto niente. Noi abbiamo a che fare con tecnologie che superano di molto la nostra capacità di immaginare concretamente il loro funzionamento e le loro conseguenze. Forse sarebbe meglio lasciar perdere i dispositivi che apparentemente non potremo mai padroneggiare. Invece, il nostro modo di vivere insieme, di produrre e distribuire prodotti, è qualcosa che è assolutamente alla nostra portata - ma sembra stranamente essere oltre il nostro potere, di quanto lo sia il nanosecondo o il superamento della velocità della luce ...
- Anselm Jappe -
fonte: http://palim-psao.over-blog.fr