Se il modello del film riprende, nell’accostamento tra l’estraneità emotiva dei personaggi e quella geografica del paesaggio, un capolavoro come “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini, nei fatti il film non riesce a creare quel contatto, ma si limita a fornire un espediente “esotico” per diversificare una vicenda che in realtà ripete, con la proposizione di un disfunzione familiare in cui il pater familias funziona quasi sempre come elemento disgregante, uno dei temi cardini del recente cinema danese. Popolato da non luoghi come la camera d’albergo adibita a confessionale in cui si consuma l’ultimo atto del menage matrimoniale, oppure in quella dell’obitorio dove più volte la storia ritorna per ribadire anche in termini visivi (il padre riverso senza vita sul lettino ed il figlio psicologicamente subordinato al suo cospetto) lo squilibrio di un rapporto ancora una volta giocato sulla presenza/assenza del primo e nell’accettazione obbligata del secondo, ed anche dallo schermo del computer dal quale Christoffer si videocollega per parlare con il suo bambino, “Prag” sembra volerci dire che la dispersività affettiva incomincia proprio dalla mancanza di uno spazio comune e condiviso, senza il quale è impossibile riconoscersi nell’altro.
Girato in maniera diligente ma didascalica da Ole Christian Madsen, il film si avvale della presenza di un attore di fama come Mads Mikkelsen il quale non riesce più a levarsi di dosso l’espressione che lo ha lanciato e continua a recitare come la versione europeizzata di Viggo Mortensen. Anche in questo caso, nulla di nuovo dal fronte danese.