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Che il fascismo sia un prodotto commerciale capace ancora di “tirare”, è fuori di dubbio. Basti considerare il florido mercato di calendari e gadget dedicati al Ventennio. La simpatia per il duce attraversa come un fiume carsico la storia repubblicana italiana, riaffiorando ora sotto forma di proposta (sic) politica: nonostante il divieto di ricostituzione del partito fascista e il reato di apologia del fascismo, alcune manifestazioni, più o meno folcloristiche, sono eloquenti; ora come nostalgico e malinteso senso di orgoglio nazionale (“quando c’era lui”). Contrariamente a quanto sostenuto dalla storiografia liberale, sono convinto che il fascismo non costituisca una “parentesi” nel corso della storia italiana (il che avrebbe dovuto comportare, dopo la sua caduta, la naturale conseguenza di un ritorno all’Italia liberale). Il movimento fondato da Benito Mussolini appartiene in toto alla biografia italiana, è la conseguenza della presenza, per tutto il sessantennio post-unitario, di “germi patogeni” nella società e nelle istituzioni (teoria a cavallo tra quella liberale e quella ispirata al determinismo marxista, che ebbe fortuna negli ambienti azionisti). Non è azzardato ipotizzare che senza il 10 giugno 1940 e il disastroso esito del conflitto mondiale, il duce avrebbe probabilmente finito i suoi giorni nel proprio letto (come Francisco Franco in Spagna). La storia insegna che l’Italia è un Paese che periodicamente si lascia affascinare da uomini della Provvidenza ai quali affida acriticamente il destino della Nazione.
Non credo sia casuale l’ondata revisionista degli ultimi venti anni, tesa a presentare un dittatore dal volto “umano”, un pacifista vittima dell’alleanza “obbligata” con Hitler, amico degli ebrei e dotato di una sensibilità che gli consentiva, al massimo, di mandare gli oppositori politici “in villeggiatura al confino”.
L’operazione editoriale portata a termine da Elisabetta Sgarbi e Marcello Dell’Utri per conto della Bompiani va collocata in questo clima culturale. Pubblicare i “Diari” di Mussolini negli anni compresi tra il 1935 e il 1939, non può avere altre giustificazioni, se non quelle nostalgico-commerciale e revisionista. Perché i diari sono apocrifi, talmente falsi che lo stesso editore ha dovuto cautelativamente titolare l’opera I Diari di Mussolini [veri o presunti]. Il primo volume (1939), pubblicato nel 2010, è stato già smontato dallo storico Mimmo Franzinelli, il quale ha svelato la “bufala colossale” in Autopsia di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (Bollati Boringhieri, 2011). Un’indagine rigorosa e certosina che stabilisce chi ha scritto materialmente i diari e dimostra in che modo essi sono pervenuti nelle mani del senatore Dell’Utri. Una storia giudiziaria nota e terminata nel 1962 con la condanna per truffa e falso delle due autrici (le vercellesi Rosetta e Mimì Panvini, mamma e figlia), dopo il bidone rifilato ad Arnaldo Mondadori. Da allora, le famose cinque agende della Croce Rossa sono state periodicamente proposte a editori italiani e europei, inutilmente, sino alla “scoperta” fatta da Dell’Utri in Svizzera.
Gli errori e le incongruenze storiche, puntualmente evidenziati da Franzinelli, si contano a iosa. I più eclatanti: alcuni eventi posticipati di ventiquattro ore, a dimostrazione che spesso la fonte è il resoconto pubblicato da qualche quotidiano il giorno successivo all’effettivo svolgimento dei fatti; i carri armati tedeschi “Tigre” citati con tre anni d’anticipo rispetto alla loro effettiva comparsa (1942); la data del compleanno del duce sbagliata; l’assenza dalle carte di alcuni personaggi del regime di primo piano (quelli che, evidentemente, all’epoca dell’estensione dei diari, non avevano ancora pubblicato memorie scritte). Franzinelli dimostra che il diario del 1939 è stato “costruito” utilizzando come fonti i giornali d’epoca, gli Scritti e discorsi di Benito Mussolini, pubblicati da Hoepli, il Diario di Galeazzo Ciano. Agli strafalcioni sintattici e agli anacronismi si aggiungono altre prove: l’analisi chimica dell’inchiostro, “incompatibile con quello in commercio prima della seconda guerra mondiale” (perizia del 1989); la perizia calligrafica del 1993 che ne dichiara “l’inattendibilità”; la scrittura troppo ordinata e lineare, come di chi stia copiando un testo; l’agenda stessa, che non è un’agenda “originale” della Croce Rossa.
La giustificazione dei fautori dell’autenticità degli scritti è indimostrabile. Sarebbero stati sì copiati, ma dagli originali. Quel che è certo, anche lo storico americano Brian Sullivan, per quasi trent’anni sostenitore della tesi dell’autenticità “postuma” del diario del 1939 (sarebbe stato cioè scritto negli anni della Repubblica di Salò per essere eventualmente utilizzato come memoria difensiva nel caso di un processo da parte degli Alleati), di fronte alle argomentazioni di Franzinelli ha cambiato opinione, allineandosi così con quanto sostenuto da tempo da tutti gli storici italiani.
Rimane l’irritazione per il degrado di alcuni settori della cultura italiana, disposti ad avallare un clamoroso tentativo di falsificazione della storia, un caso editoriale che diventa “anche” questione politica. La pubblicità ingannevole su LIBERO, che aveva anticipato l’uscita in fascicoli dei diari, promuovendoli con lo slogan “la storia scritta di suo pugno” o la recensione su IL GIORNALE (“ognuno potrà farsi un’idea, più o meno approfondita a seconda dei propri interessi, della autenticità delle carte”), si inseriscono nel solco della cronaca attuale, quella in cui fiction e realtà si mischiano al punto che risulta difficile separare il grano dal loglio.
La storia è però una cosa seria. Il libro di Franzinelli raccoglie la lezione che lo storico francese Marc Bloch, giustiziato dai nazisti nel 1944, ha scolpito in Apologia della storia (o mestiere di storico), laddove sostiene che compito dello storico è “difendere la storia dai suoi negatori, vecchi e nuovi”, attraverso la ricerca dell’impostore che si nasconde dietro l’impostura.
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