Jonatan Sabbioni, AL SUO VERO NOME, L’Arcolaio 2011
In effetti questi testi sono attraversati da “una domanda di senso e di destino chiesto alla natura”; ma anche da una visione cristiana dell’esistenza che mette in gioco il rapporto padre figlio come essenza del vivere “oltre il peccato”, oltre, cioè, un’idea paganamente risolta, naturale della vita, ma piuttosto interrogata da una rivelata richiesta di cambiamento.
Il tono moraleggiante di molti di questi testi è la conseguente interrogazione intorno a un destino di perdite, di slittamento del moderno verso un laicismo senza risvolti di cambiamento. Centralità della croce, dunque, ma anche ricchezza dell’esperienza, vero banco di prova per il guadagno di un destino consapevole, di una rifondazione, forse, partendo da “questi altissimi vuoti/nel terreno fertile”, p. 32.
Ma anche valore del dubbio, pausa e movimento, “dinamismo stabile”, procedere a ritroso, essere al limite, oltre il peccato, fino addirittura alla “nobiltà del male”, “la bellezza di una parola laica”, p. 64.
Il senso, dunque, di una possibile verità, si costruisce partendo da un nucleo fondante, da poche ostinate certezze. Anche in questo caso, dal valore memoriale e di simbologia vivente di una terra vissuta come luogo dell’approdo memoriale che custodisce il segreto di secoli.
Così malgrado tutto, il padre abbraccia sempre il figlio tra le mura della casa, l’”Amore è un uscio dischiuso/una fotografia custodita/una voce nella stanza di fianco”, p. 37.
Questo tornare sui propri passi non segna la fine del viaggio, il riposo dell’esule. Piuttosto riaccende la domanda dell’essere e solo in questo modo può riconsegnarla alla discendenza.
Questi figli moderni che spesso si considerano partoriti nel buio, figli traditi, uccelli colpiti, cani feriti per eccesso di libertà, cristi ventenni senza guerre da combattere, non possono che ergersi a baluardi, testimoni di una speranza. Che è, appunto, rimettersi nel solco dei padri, della terra, della casa. “Sembra che l’odio possa bastare/e invece scrivo ancora/pieno d’amore”.
Sebastiano Aglieco
*
Lo dicevi: peccare non significa fare il male.
Tu hai fatto un solo gesto.
Tu non sapevi niente. Amammo un silenzio
pieno, un sonno doloroso. Mi resterà
il tuo mondo mite,
questo fresco pezzo di terra. Presto anche noi,
dolci superstiti, nient’altro saremo
se non i nostri giorni. Santi poveri:
una sciarpa di lana e un crocifisso senza spine.
*
Respiro il profumo del bosco,
il cammino per la strada che avanza,
il muretto al bivio
al confine della vecchia montagna.
Intorno a me il cielo
è una radura, una coltre erbosa,
un grande castagno. Qualcosa si muove
nella dolcezza del giorno. Un uomo fiorisce.
*
Volevo essere libero come una spina,
generare sangue immacolato,
bruciare l’erba malevola del pentimento.
La lontananza non è tra le leggi sacre, dicevi.
Non respiro se penso a quanta luce
tu sprechi, cuore insepolto. Mi fai cadere,
precipito dai tuoi occhi così deserti.
*
Alle sponde della luce siamo
abbandonati, siamo liberi, siamo nuove
avventure del respiro. Non è amore.
E’ la violenza della vita, dei sensi.
E’ solo la strada. E’ la carne senza freni. Ogni occhio
può essere limpido, può essere servo.
Per un’anima vergine non contano i secoli.
Siamo superstiti di un solo corpo.
*
Solo Dio ci basta. Mai le cose.
Ma non è sempre vero,
non è vero per sempre.
Basta, alle volte, l’eleganza di un gesto
nella paura, la bellezza di una parola laica.
Lo scintillio di vita
raccolto sul corpo
delle donne, dentro destini stravolti.
La nobiltà del male,
a tratti. Filtra allora una luce
semplice che mai avremmo creduto.
Si spezza la certezza di pietra,
e tutto crolla.