Mi succede praticamente tutti giorni, quando preparo le lezioni, di chiedermi cosa faccio? Non è questione di programmi, né di conoscenza della materia: per quella, basta rimettersi a studiare – ed è uno degli aspetti migliori. Piuttosto, il problema è la ricerca della giusta dimensione. Voglio dire, ogni insegnante s'immagina in un determinato modo – e certo io non mi immaginavo ad insegnare in un istituto tecnico, quando è arrivato l'agognato passaggio allle superiori – e quella stessa immaginazione si modifica nel tempo, si aggiusta o si ribalta a seconda delle esperienze. Ecco, io mi immagino molto, nel bene e nel male. Ma oltre a dover fare i conti con le oggettive novità che devo affrontare (come riparametrare tutti miei tempi su sole 4 ore di italiano e sulla doppia scadenza trimestre+pentamestre, oltre che sulla duplice valutazione scritto/orale), mi pongo il grave dilemma: seguire le orme già tracciate dai colleghi o approfittare della grande libertà concessa nel biennio e provare a togliere un po' di polvere dalla cattedra? Il sentiero noto è un grosso appiglio nel turbine delle novità e garantisce anche che la collega che prenderà le classi l'anno prossimo non si trovi spiazzata, ma mi provoca, spesso, enormi sbadigli di noia; la briglia sciolta è piacevolissima e probabilmente feconda, ma rischia di essere dispersiva e inconcludente, soprattutto per i ragazzi.
Così, mentre da una parte ho deciso di ripristinare, in prima, l'adozione del testo di antologia, e dall'altra mi sfogo sforbiciando i Promessi Sposi senza se e senza ma e facendo crollare molte certezze sull'analisi logica, le domande che pongo a me stessa sono mooolte di più di quelle che pongo ai miei alunni – e l'amica 'povna, che di questi tempi, purtroppo per lei, è un po' lo mio duca, lo sa perfettamente.
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