Nel 1940 l’Italia dichiara guerra alla Francia ormai sconfitta dai Tedeschi. Il Duce vuole prendere parte al banchetto dei vincitori; la guerra dura pochi giorni, costa centinaia di morti e le truppe italiane avanzano solo di pochi chilometri, arrivando a Mentone.
In questa cittadina è ambientato il racconto di Calvino. Il protagonista è un diciasettenne che vive nelle retrovie italiane del fronte, dove già i nostri soldati hanno compiuto odiosi saccheggi e piccole distruzioni, nelle case e nei campi, tanto che la madre del ragazzo dice con amarezza: “ … al soldato di conquista ogni terra è nemica, anche la sua”.
Il giovane manifesta già un certo distacco verso le iniziative del regime. Ma anche lui parte, insieme ai coetanei (inquadrati come avanguardisti); si va a Mentone per presenziare ad alcune iniziative organizzate dalla Casa del Fascio per accogliere dei falangisti spagnoli. L’adolescente partecipa per curiosità e perché parte anche l’amico Biancone. La finzione costruita dal regime è già nota: “Avevamo visto di recente al cinema un documentario che rappresentava la battaglia delle nostre truppe per le vie di Mentone; ma poi sapevano che facevano per finta, che Mentone non era stata conquistata da nessuno, era stata solo sgombrata dall’esercito francese al momento del crollo …”.
Biancone è più estroverso e socievole del compagno col quale condivide un certo spirito di indipendenza; si distingue dai coetanei per furbizia, ma partecipa comunque alle varie iniziative. Si parte come per una gita scolastica. Gli avanguardisti giungono nella cittadina semideserta e qui emerge tutta l’approssimazione organizzativa dell’evento; c’è confusione, si attendono a lungo gli spagnoli, arrivano voci continuamente smentite e si decide all’ultimo momento di restare a dormire a Mentone. Molte case sono vuote e allora inizia il saccheggio da parte dei ragazzi.
I capi esortano a farlo: “ … questa è una città conquistata e noi siamo i vincitori … un giovane che si trova qui oggi, e non porta via niente, è un fesso … e io mi vergognerei di stringergli la mano!”.
Il protagonista, disgustato dall’andazzo generale, alla fine commette un piccolo atto di sabotaggio; afferra di nascosto le chiavi delle stanze della sede del partito e le getta via, contento di aver creato un qualche disagio. Invece l’amico non ha remore a depredare nelle abitazioni come gli altri, vantandosi del bottino. Il giovane rientra perplesso dalla cittadina, intuendo in modo oscuro che la guerra avrebbe segnato anche la sua vita.
Il conflitto con la Francia è stato breve; gli eccessi dei vincitori, come detto, hanno causato danni agli stessi italiani che hanno subito saccheggi dai propri militari. La conquista è stata peraltro simbolica. Nel racconto, il regime, nei suoi ranghi più bassi, incoraggia lo spirito razziatore e si vanta, anche davanti ai falangisti spagnoli, di una vittoria molto facile.
Nel testo si sente lo spirito di avventura adolescenziale, ma c’è un fondo cupo. La preda bellica è un centro di provincia, deserto, triste, monotono. C’è l’impressione di camminare in una sorta di nuova Pompei, una città senza vita paragonata a un “sarcofago liberty”. Emerge un senso di vacuità mentre i ragazzi violano case abbandonate, frugano nei cassetti alla ricerca di qualcosa di prezioso, leggono lettere altrui. I capi si complimentano con gli avanguardisti; Mentone è vuota e piccola come i suoi occupanti che si travestono da conquistatori. La finzione del documentario visto al cinema si prolunga.
A parte il protagonista, nessuno torna con una consapevolezza nuova; la guerra vinta si accompagna alla sfrontatezza e alla spavalderia. Eppure, in filigrana, si sentono già gli scricchiolii di un regime la cui magniloquenza nascondeva incapacità e approssimazione.