Lunedì il segretario alla Difesa americano Chuck Hagel, ha rassegnato le proprie dimissioni. Si dice che siano voltati stracci negli uffici dell’Amministrazione, con accuse reciproche e toni forti.Obama - che ha commentato la decisione, «è il momento giusto per lasciare» – cambia il suo quarto capo del Pentagono dal 2009 (primo mandato), e lo fa con la speranza di rimettere in piedi una strategia che sembra essere impigrita, lenta, vuota.
Hagel paga la guerra al Califfo – e la sua pianificazione. Lui, che aveva parlato per primo di «minaccia esistenziale», riferendosi al Califfato quest’estate, paga personalmente per colpe non sue – o almeno, non sue “esclusive”. Fu proprio dal suo dipartimento che partì l’idea, giusta, di attaccare lo Stato Islamico nell’ambito complessivo della sua estensione: cioè, anche in Siria e non solo in Iraq. Ma per Hagel, come per il Pentagono, non si poteva andare a Damasco senza prendere in mezzo anche Assad. Visione, probabilmente altrettanto giusta, ma non troppo gradita ai notabili dello Studio Ovale.
Obama, e i suoi strettissimi consiglieri, volevano prendere – e hanno preso – la via della cautela: “facciamo una guerra, ma soft”. Strategia, pure questa, legittima, o almeno comprensibile, visto la complessità della situazione. I fedelissimi di Obama cercavano allora una soluzione alternativa, fantasiosa, e alla fine se la sono presa con Hagel, diretto colpevole, secondo loro, della mancanza di strategie innovative dal punto di vista militare. Hagel, invece, ha sempre tenuto la posizione, ripetendo che non si può pensare di scacciare il Califfo senza uomini in Iraq, bombardando a singhiozzo, e senza rischiare sui ribelli addestrati. E poi, per chiudere il quadro, non si può eliminare la stato islamico sunnita, senza togliere pure il regime sciita siriano.
La fantasia nelle progettualità, è lo skill fondamentale da mettere in cima alla lista nel curriculum dei sostituti: e ne servirà di fantasia, per arrivare a una soluzione conclusiva, partendo da certi presupposti su cui il presidente – che da sempre si è tenuto il veto dell’ultima parola su tutto quello che riguarda la politica estera e militare – non vuole trattare. Resta che l’aumento del coinvolgimento e l’appoggio di partner locali dalle doppie agende, sembrano essere capisaldi duri, ma realistici, per il futuro delle operazioni.
Girano vari nomi.
Uno di questi è Ash Carter, di nuovo lui, dopo che nel 2013 – anno in cui si era concluso il suo mandato da vice-segretario alla Difesa – doveva essere nominato Segretario. Ai tempi Obama scelse Hagel, invitando Carter a restare dentro al Pentagono, per prestare la sua esperienza nel settore commerciale del dipartimento. Molti sostengono che a Hagel mancasse quella profondità amministrativa che invece Carter possiede.
Poi c’è Michéle Flournoy, fino a poche ore fa data per sicura sostituta. Poi si è tirata fuori dalla corsa con un’intervista a Politico: ex sottosegretario alla Difesa sotto Robert Gates e Leon Panetta dal 2009 al 2012, sarebbe stata la prima donna a occupare il ruolo nella storia americana. Non è detto che non ci ripensi, ma è difficile.
Altra donna in corsa – ma come molte meno chance di quelle che poteva avere Flournoy – è Deborah Lee James, attuale capo dell’Air Force. È molto amata tra i funzionari della Casa Bianca e a Capitol Hill. A febbraio il New York Times ne descrisse l’approccio, tosto, caparbio, aggressivo – «sledgehammer approach» – alle problematiche che il suo ruolo gli stava mettendo davanti. È considerata senza grossa esperienza all’interno del Pentagono, ma ha ricoperto incarichi nei settori legislativi sotto l’amministrazione Clinton (un punto in più, o in meno, dipende dal futuro del rapporto Hillary-Barack).
Altro candidato su cui si discute, è Jack Reed, senatore dem dal Rhode Island, veterano del Vietnam (come Hagel), laureato a West Point, ritirato dall’esercito nel ’91, dopo aver servito come un Ranger e come paracadutista nella 82a Airborne. Reed è stato un riferimento di Hagel per trattare la risposta militare su Ebola e pure sullo Stato Islamico. Ha appoggiato le preoccupazioni che Hagel aveva espresso nelle ultime settimane in merito alla mancanza di obiettivi chiari: questo non sono bonus, anzi, ma i suoi ottimi rapporti con il mondo economico “della Difesa” potrebbe invece essere una green card.
Dal Senato arriva anche il nome di Tim Kaine (democratico della Virginia). Kaine è membro del Senate Armed Services, Budget and Foreign Relations Committees e presidente del Senate Subcommittee on the Near East, South and Central Asian Affairs. Esperienza politica e conoscenza dei meccanismi congressuali, dalla sua. È stato uno dei sostenitori storici di Barack Obama, poi negli ultimi tempi le diverse visioni sul futuro della lotta all’IS hanno un po’ allontanato i due.
Un passaggio quasi scontato, sarebbe quello che vedrebbe Robert Work, vice segretario da maggio, passare sul sedia di segretario alla Difesa. Work è stato un Marines per quasi trent’anni, poi ha insegnato alla George Washington University. È un buon nome, anche perché dai circoli politici di Washington si alzano commenti sulla sua debole capacità di leadership: cioè, è uno in grado di mettersi da parte quando serve. Obama, in fondo, questo cerca (anche).
Ultimo, ma solo per età (ha 80 anni), dei chiacchierati il sentore democratico Carl Levin – membro del Congresso dal 1979, dal Michigan. Come Reed è considerato molto vicino a Hagel; è il presidente del Senate Armed Services Committee. Sostenne la guerra in Afghanistan, ma si oppose all’invasione in Iraq del 2003. Quando i giornalisti lo hanno incalzato sul futuro del gabinetto di Difesa, ha risposto: «Io vado a casa».
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