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Il film ci racconta di Jake Scully (Sam Worthington), un ex marine costretto alla sedia a rotelle, incaricato dalla corporazione militare terrestre (RDA) di fornire quante più informazioni possibili su Pandora, pianeta abitato dai Na’Vi, in cui è sito un importante minerale: l’Unobtanium. Siamo nel 2154 e per gli esseri umani è scientificamente possibile controllare a distanza un avatar, un essere geneticamente modificato identico ad un Na’Vi. Con questo stratagemma, Jake Scully riesce ad infiltrarsi nella tribù aliena e raccogliere tutti i dati necessari perché l’RDA possa procedere con la sua missione di conquista. L’incontro con l’intrigante Neytiri (Zoë Saldaña), e il contatto diretto con gli usi e costumi della pacifica popolazione di Pandora, muterà però il punto di vista del protagonista rispetto al compito che è chiamato ad assolvere.
Il punto di forza del film è proprio il pianeta Pandora. Un mondo privo di qualsiasi imbarbarimento urbanistico, un Eden dalla vegetazione lussureggiante, carico di fascino e magia. E’ qui che Cameron sbaraglia qualsiasi concorrente, è qui che vince la partita. La cura con la quale gli addetti alla computer-grafica si sono dedicati alla realizzazione di ogni dettaglio sia della flora che della fauna pandoriana è impressionante. Tanto che lo scarto tra la parte “reale” del film (quella con i terrestri) e quella “virtuale” (in compagnia dei Na’Vi) non è mai oggetto di disturbo o disorientamento. Anzi. Ogni volta che stiamo tra gli umani sentiamo forte la voglia di ritornare su Pandora. E’ quello il posto che per tutto il film sentiamo come nostro! L’amore di Cameron per il pianeta dei Na’Vi è percepibile ad ogni inquadratura, sia quando si concede un approccio di tipo documentaristico, descrittivo, sia quando – entrando nelle maglie del dramma, dell’azione, dei grandi sentimenti – opta per una regia volta a vivificare l’ambiente intorno, trasmutandolo in un personaggio aggiunto e, per questo, anche agente. E’ qui che la parentela tra “Avatar” e “La principessa Mononoke” si fa più evidente. Nel capolavoro di Hayao Miyazaki la Città del Ferro (gli uomini) ferisce la foresta che, guidata da San (la principessa degli spiriti vendicativi), si anima in difesa di sé. E la morale della fiaba, secondo cui ferire la Natura equivale a ferire se stessi, è ben rappresentata in “Avatar” tramite il tema della “connessione”. I Na’Vi, grazie alla loro coda, si connettono con l'ambiente, con gli animali. Siamo parte di un Uno cosmico ci dice Cameron, ragion per cui – aldilà delle derive panteistiche che fanno tanto New Age – l’odio, il conflitto, sorgono là dove la comunicazione con l’altro viene a mancare. Così il “ti vedo” che Neytiri e Jake si scambiano è un chiaro superamento del più classico “ti amo”. Smessa l’erronea sinonimia col semplice “guardare”, il verbo “vedere” apre una dimensione più profonda, onnicomprensiva. Ti amo, ti sento, dunque ti vedo: sono connesso con te.
Il punto debole del film è invece la convenzionalità della sceneggiatura, la stretta filiazione del plot con altri illustri predecessori. Da “Balla coi lupi” a “Pocahontas”, e indietro fino a “Soldato blu” e a “Piccolo grande uomo”, il tema dell’integrazione tra differenti culture era già stato pregevolmente affrontato e reso oggetto di ampie dispute. “Avatar”, da questo punto di vista, non aggiunge nulla a parte il contesto e il periodo storico. Tuttavia un’esile scusante la si può addurre. Se è vero – come credo – che il film segni una cesura nella storia del cinema, tanto che da qui in avanti avrà senso parlare di un cinema “pre-Avatar” e “post-Avatar”, allora non sarà del tutto sbagliato sospettare che Cameron abbia voluto inaugurare questo nuovo corso cinematografico ripartendo dall’assai spinosa questione della prevaricazione culturale del popolo statunitense su un altro. Gli espliciti riferimenti alla storia d’amore tra il colonizzatore John Smith e l’indigena Pocahontas (per quanto romanzata sia a noi pervenuta), sia i rimandi al dramma dei nativi d’America o alla dolorosa attualità del conflitto mediorientale, veicolano difatti una precisa visione politica mai così apertamente dichiarata per mezzo di un “blockbuster movie” (ricordiamoci che il regista, durante l’ultimo mandato Bush, rifiutò persino la cittadinanza americana). Ciò nonostante – forse proprio perché troppo in linea con la più tradizionale logica “made in USA” – il film inciampa qua e là in un parallelismo didascalico per cui Iraq uguale Pandora, petrolio uguale Unobtanium e nativi d’America uguale Na’Vi. Giusto per fare chiarezza (giammai un paragone!) dico che sia il Terrence Malick di “The New World” che il Miyazaki del già citato anime “La principessa Mononoke” sono riusciti, sul medesimo argomento affrontato da Cameron, ad aprire scenari che vanno ben aldilà della morale relativa al rispetto dell’ambiente e di una cultura. In parole povere, sono entrambi linguisticamente nuovi. Se “Avatar” avesse osato di più, almeno sul piano strettamente narrativo, concedendo meno in termini di prevedibilità, staremmo a parlare senz’altro di uno dei più grandi capolavori cinematografici mai realizzati. Purtroppo così non è.
Infine la parte audio. Meravigliosa nella riproduzione accurata dei rumori più reconditi della foresta, scontata nelle musiche che accompagnano le battaglie o i momenti più drammatici. Un vero peccato.
La speranza – l’ultima, secondo la mitologia, a lasciare proprio il vaso di Pandora – è quella di assistere, nei successivi capitoli della trilogia di “Avatar”, a significativi passi in avanti non solo a livello di computer-grafica. Detto questo, ritornando sul concetto sinonimico del “ti amo/ti vedo”, non credo di fare un torto ai fans di Cameron se affermo con convinzione che, a prescindere da certi dettagli, il suo è comunque un film che si lascia …vedere.
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