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Ave, Cesare! - Recensione

Creato il 10 marzo 2016 da Lightman

Berlinale 66

Joel ed Ethan Coen si divertono con il pubblico e con il loro stesso mestiere, muovendo la camera intorno ad un cast d'eccezione che si presta ad un divertente gioco delle parti pronto a dissezionare, dissacrare ed infine abbracciare Hollywood.

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Serena Catalano Figura mitologica metà umana e metà pellicola, ha sfidato e battuto record mondiali di film visti, anche se il successo non l'ha minimamente rallentata. Divora cortometraggi, mediometraggi, lungometraggi, film sperimentali, documentari, cartoni animati: è arrivata addirittura fino alla fine della proiezione di E La Chiamano Estate. Sogni nel cassetto? Una chiacchierata con Marion Cotillard ed un posto nei Tenenbaum.

Il cinema funziona molto spesso come un circo: gli studios, soprattutto negli anni '50, non erano altro se non un'industria pronta a lavorare per produrre finzione, inscenando un teatrino pronto da dare in pasto al pubblico. Western, film drammatici, musicals, adattamenti teatrali venivano prodotti senza sosta giorno e notte. Niente orari, niente logica, solo un grande spettacolo che si muove di palco in palco, creando differenti versioni di un'esistenza patinata che si mescola alla perfezione con la realtà. A dirigere questo folle baraccone Eddie Mannix ( Josh Brolin), cattolico e devoto padre di famiglia sempre in bilico tra il creare la finzione dei film cercando di avvicinarla alla realtà e gestire la realtà degli studios, spesso avvicinandola alla finzione. Burattinaio d'eccezione, Mannix si trova a dover combattere con la produzione del più grande film della Capitol Pictures, Hail! Caesar, il cui attore protagonista ( George Clooney) scompare improvvisamente senza lasciare traccia. E così il circo inizia a girare: un tocco dopo l'altro Mannix si muove danzando tra una produzione e l'altra, mentre Joel ed Ethan Coen lo seguono con la macchina da presa (lasciata nelle mani di Roger Deakins) pronti ad inscenare uno scanzonato divertissement che, non a caso, prende il nome di Ave, Cesare!.

La bibbia secondo Hollywood

Ave, Cesare! - Recensione

Anche il cinema è, a suo modo, un atto di fede: nell'entrare all'interno della sala cinematografica allo spettatore viene in fondo richiesto proprio questo, di credere in ciò che è stato creato per lui. Partendo da questo presupposto, Joel ed Ethan Coen creano davanti agli occhi di quello stesso spettatore un'autopsia dell'irreale, dissezionando pezzo dopo pezzo ogni aspetto di quella stupenda macchina delle illusioni che è il cinema. Non solo il loro cinema, o il cinema degli anni '50 (che ha evidentemente influenzato i fratelli Coen durante tutta la loro carriera e qui arriva celebrato grazie a citazioni continue) ma l'intera industria dalla genesi ad oggi. Nulla sfugge all'occhio dei registi: preproduzione, produzione, il set e la preparazione degli attori, il montaggio, la prima del film. Ogni aspetto ha un suo momento, una sua scena, un suo sipario tanto inconcepibile quanto attinente alla realtà. A sintesi del processo, i registi americani fanno sedere allo stesso tavolo quattro esponenti di quattro credi religiosi diversi, pronti a battagliarsi di fronte al martire Mannix per reclamare una verità religiosa sulla sceneggiatura di Hail! Caesar, declinando senza sosta i loro assolutismi senza fare ciò che gli viene richiesto - ovvero un atto di fede. Quello che in fondo porta le persone come Mannix in chiesa, le giornaliste a fidarsi dei produttori, gli attori ad abbandonarsi al loro ruolo e, infine, gli spettatori a godersi un buon film. All'interno di questa costruzione gigioneggiante e pronta a non prendersi mai sul serio, i fratelli Coen allineano un cast d'eccezione perfetto in ogni sfumatura, che ricostruisce con dovizia ogni dettaglio: George Clooney e Josh Brolin trascinano i due estremi, e al loro seguito portano dei convincentissimi Channing Tatum, Scarlett Johansson, Jonah Hill e Tilda Swinton. Un plauso particolare a due interventi d'eccezione, quelli di Frances McDormand nei panni di una montatrice e Ralph Fiennes nei panni di un regista, entrambi caratteristi di gran classe che regalano due tra i momenti più convincenti sia per ritmo che per caratterizzazione.

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Un divertente gioco delle parti

Alla fine, quello che resta del grande cabaret dei fratelli Coen non è né più né meno di un divertissement che sfugge a qualsiasi etichetta, dimenandosi all'interno di sipari più o meno seriosi, uscendo ed entrando continuamente da realtà a finzione fino a mescolare il tutto. Ci si trova sui set, ci si trova dietro le quinte, ci si trova perfino in mezzo ad un gruppo di sceneggiatori affiliati al partito comunista, teatro di iconici siparietti fatti di propaganda dissacrata dallo stesso Baird Whitlock ( Clooney), uno scanzonato Giulio Cesare a simbolo della demistificata mitologia Hollywoodiana, distrutta pezzo dopo pezzo. Joel ed Ethan Coen chiedono così allo spettatore un atto di fede al fine di sconfessarlo, divertendosi a destrutturare ogni credenza giocandoci sopra. Missione compiuta, anche se con qualche riserva dovuta alla mancanza di ritmo in alcune parti e all'eccessiva confusione di generi che, seppur giustificata dalle intenzioni, si risolve sullo schermo mancando di ritmo in alcuni passaggi.

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