Titolo: Avevano spento anche la luna
Autore: Ruta Sepetys
Editore: Garzanti
Anno: 2011
“Alcune guerre si vincono con i bombardamenti. Per le popolazioni del Baltico questa guerra è stata vinta credendoci. Nel 1991, dopo cinquant'anni di brutale occupazione, i tre paesi baltici hanno riconquistato l'indipendenza, in maniera pacifica e con dignità. Hanno scelto la speranza e non l'odio e hanno dimostrato al mondo che anche alla fine della notte più buia c'è la luce. Per favore, fate ricerche sull'argomento. Parlatene. Queste tre minuscole nazioni ci hanno insegnato che l'amore è l'esercito più potente. Che sia amore per un amico, amore per la patria, amore per Dio o anche amore per il nemico, in ogni caso l'amore ci rivela la natura davvero miracolosa dello spirito umano”.
Le “tre minuscole nazioni” sono Estonia, Lettonia e Lituania, occupate nel 1940 dalle truppe di Stalin.
“Si calcola che Iosif Stalin abbia fatto uccidere più di venti milioni di persone durante il suo regno del terrore”; i paesi baltici persero più di un terzo della loro popolazione.
La scrittrice Ruta Sepetys, nata in Michigan, ha origini lituane (suo padre è figlio di un ufficiale dell'esercito) e, nel tentativo di recuperare la storia della sua famiglia, si è recata due volte in Lituania per fare ricerche sul campo, incontrare superstiti dei gulag e sopravvissuti alle deportazioni.
Vi assicuro che il risultato è assolutamente sorprendente, perché le sofferenze che l'autrice racconta sembrano cucite sulla sua pelle, e “Avevano spento anche la luna” (titolo originale Between Shades of Gray) rientra sicuramente tra i migliori romanzi di questo 2011.
14 giugno 1941. Lina Vilkas, quindici anni, viene trascinata via nel cuore della notte dagli agenti dell'NKVD, la polizia segreta sovietica (quella che sarebbe poi diventata il KGB), insieme a sua madre e suo fratello Jonas.
Sul camion ci sono tante altre persone: una maestra, una bibliotecaria, il proprietario di un albergo e parecchi uomini che Lina aveva visto parlare per strada con suo padre, rettore dell'università.
“Eravamo tutti sulla lista. Non sapevo bene cosa fosse quella lista, sapevo solo che c'era scritto sopra il nostro nome...”.
Inizia così un lunghissimo e disperato viaggio tra fame, stanchezza e cadaveri gettati per strada, un viaggio che l'autrice ci descrive puntando l'obiettivo sull'angusto spazio in cui sono ammucchiati i deportati, facendoci vivere sensazioni di angoscia e di paura in circa ottanta pagine dal ritmo straordinariamente veloce.
“Sentivo su di me il loro alito cattivo, e i loro gomiti e le ginocchia sempre contro la mia schiena. A volte mi veniva la tentazione di cominciare a spingere lontano da me la gente, ma non sarebbe servito a niente. Eravamo come fiammiferi in una scatoletta”.
Prima di uscire di corsa da casa, Lina ha fatto in tempo ad afferrare un blocco di carta e un astuccio di penne e matite: sarà la sua arte a darle forza, saranno i disegni che proverà a realizzare nei modi più disparati a regalarle la speranza di poter ritrovare suo padre.
La nuova vita, se di vita può parlarsi, comincia negli Altaj. Cibo scarso e razionato, guardie brutali che sorvegliano il kolchoz e i deportati costretti a lavorare senza tregua, tra sputi e insulti, tagliando legna, raccogliendo barbabietole e scavando fosse destinate ad accogliere i loro morti.
“Mi ricordai che il papà aveva parlato del fatto che Stalin avesse confiscato la terra, gli attrezzi e gli animali ai contadini. Ordinava loro quali raccolti produrre e decideva quanto sarebbero stati pagati. Come poteva Stalin prendere, come se niente fosse, qualcosa che non gli apparteneva, per cui un contadino e la sua famiglia avevano lavorato tutta la vita? «È il comunismo, Lina», aveva detto il papà”.
Come se non bastasse, gli Altaj si riveleranno solo una prima tappa: umiliazioni e sofferenze ancora più atroci attendono i deportati alla fine di un altro lungo viaggio...
Ma Lina vuole vivere. A ogni costo. E nella sua storia c'è la dignità di un intero popolo.
Più che consigliato.