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Da Icalamari @frperinelli

(una risposta ai commenti di  Marì qui e qui e  anche a Max, che domanda perché è un gran curiosone)

Marì, Marì,

A te sta bene ciò che scrivi, come lo scrivi, dove lo scrivi e cosa commenta chi lo viene a leggere. Allora, se ti domandi “Come si fa a cambiare prospettiva”, ti riferisci al contenuto. Il tuo blog, almeno al momento (ma ti conosco solo da ieri), rende visibile all’esterno la tua interiorità. La tua è una “scrittura catartica”, e affermando questo intendi dire che scrivere opera su di te una catarsi. Ma ancora non ti basta. Uhm uhm.

Ci sono moltissime persone come me e te che praticano una scrittura catartica, in modi a volte radicalmente differenti tra di loro. Io ho la convinzione che scrivere bene riordini i pensieri, focalizzi gli obiettivi, renda più saldi nelle convinzioni. Per questo ho l’obiettivo di scrivere sempre meglio, e per questo studio e leggo. Leggo e studio. E infine scrivo.

Viviamo nell’era Siti.

Quello dell’autofiction non è un percorso obbligato, anzi, ma per il poco che ho capito finora, è una scelta onesta, percorribile. Dirò forse qualcosa di eccessivo: è in potenza qualcosa di socialmente utile, di meritorio. Ma chiudo qui, ho citato Siti solo per introdurre l’idea che, se l’esigenza di scrivere origina da qualcosa di irrisolto nella propria interiorità (e che si sente il bisogno di indagare, di portare al confronto con altri, o solamente di liberare), trova uno sbocco proprio avendo sé stessi come oggetto di indagine.

Se questa è la via individuata, è solo compiendo concretamente (non solo letterariamente, quindi) delle “prove di vita”, assimilabili a bozze letterarie,  e osservandone i risultati, riportandoli in forma scritta, manipolandone gli effetti, che si può sperare di avvicinarsi al cuore dell’enigma.

Spesso il problema di chi si esprime attraverso un blog, è proprio quello di non riuscire a focalizzare bene il centro, l’origine delle proprie pulsioni ed inquietudini. Ne deriva una scrittura circolare. Che torna sempre sugli stessi temi. Che consola, forse, ma certo non fa evolvere. Spesso, alla decadenza del pensiero fa seguito anche quella della qualità della propria scrittura. Non è facile accorgersene. Servirebbe avere sempre accanto qualcuno che ci conosca veramente, e che ci voglia bene al punto di avvertirci in tempo se rischiamo di andare fuori rotta.

Ma a chi come me non si fida facilmente, o non vuole far gravare su altri questo fardello, non resta che cambiare prospettiva, come dicevi tu, Marì. Investire sé stessi di questo compito, sottoscrivendo l’impegno a volersi sinceramente bene e ad esercitare una lettura realmente onesta e critica. Condizioni, però, necessarie ma non sempre sufficienti perché l’io, in fondo, è sempre uno solo.

Dunque, estrema ratio, si può provare a ingannare l’occhio interiore (deformante), e adottare certe strategie correttive. Delle mie sono alquanto gelosa, e anch’io subisco l’invalidante remora del giudizio etico altrui, quindi –sapete com’è- non le diffondo. Tanto più che la loro validità è limitata alle mie personali esigenze.

Io credo che chi si interroghi sul senso del proprio scrivere, e del perché abbia scelto di non lasciarlo confinato alla propria esclusiva fruizione, possa (se è  onesto con sé stesso) riuscire a rintracciare il disegno che sta sotto. C’è sempre un disegno, solo che può essere stato realizzato inconsapevolmente.

Di recente un amico mi ha detto, scherzando, che riconosce nel mio modo di agire l’”architetto”. Al solito davanti al complimento mi sono schernita, dicendo che, piuttosto, ho cambiato lavoro proprio perché rischiavo di far crollare qualche edificio. Ma lo ringrazio ancora per la sua notazione, perché riguardo alla vita forse è vero, tracciare progetti di massima è uno dei pochi modi architettonici che mi sono rimasti.

Lo affermo con cognizione di causa: senza un progetto, seppure vago, che guidi in qualche modo le nostre azioni, siamo soltanto cani alla catena. E tanto più i blogger, che rischiano, come accade anche a me, di scavare solchi circolari e improduttivi, di farlo a lungo, senza riuscire a rendersi conto di essere vincolati a una corda fatta solo di parole.

Chi vorrà (superando la propria ritrosia) provare a non evitare le domande su sé stesso, scoprirà di avere gli elementi necessari, tramite la scrittura, e anche gli strumenti per fare sì che questo senso ri-trovato gli sia compagno lungo un percorso in linea retta. Svolto su una strada reale, fatta di terra, sabbia, asfalto, comunque concreta. Lungo la quale capita di inciampare e cadere qualche volta, ma dalla quale è possibile rialzarsi.

Non ho ricette per gli altri. Io ho fatto un disegno lungo un anno. Poi l’ho messo allo specchio e mi sono sorpresa nel trovarlo banale  e scontato, impreciso e presuntuoso. Ci sono rimasta male, posso imputare i miei errori solo a me stessa. Ma intanto ci ho provato, e continuerò a provarci, rigirando di quando in quando il foglio davanti allo specchio per verifica.

Questo l’ho fatto io, nel 2007

Un’ultima considerazione. Mi è sempre piaciuto disegnare a mano libera, a più riprese ho anche studiato su manuali di autoistruzione, l’ultimo della serie una decina di anni fa, si intitola “Disegnare con la parte destra del cervello”. Lì ho trovato il trucchetto dello specchio. Funziona. In effetti al rovescio i disegni rivelano tutte le loro pecche.

Ma è solo quando mi sono rivolta a un’insegnante professionista che ho iniziato a migliorare.

Per traslazione, io credo che per scrivere bene si debba avere l’umiltà di trovare buoni maestri. E che se si cerca di sbrogliare la propria vita, a volte può non bastare la scrittura catartica, potrebbe essere necessario devolvere fiducia e denaro a uno sbrogliatore di professione. 

Ora tu mi dirai, ma chi t’ha chiesto niente, e aggiungerai poi: chi ti conosce? Allora mi ritirerò in buon ordine, salterò in sella come sempre più o meno a quest’ora, dopo aver asciugato il sellino dalla pioggia monsonica, e scoprirò, una volta smontata, di avere il sedere fradicio perché ho scordato che l’imbottitura restituisce l’acqua a tradimento.  Che cosa c’entra? Non lo so, mi serviva un finale e non avevo voglia di sforzarmi.

Ciao, ti abbraccio (più o meno) come se ti conoscessi.


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