Antonello Venditti in concerto a Rosolini, l'8 di Agosto, ha nominato Avola, dicendo di sentirsi molto vicino alla cittadina del siracusano “politicamente”. Ho pensato per un attimo che l'avesse confusa con Cassibile, dove fu firmato l'armistizio nel 1943. Ma poi, ha aggiunto che molti hanno dimenticato cosa è accaduto ad Avola, preferendo ricordarla per il vino, con il quale si dovrebbe, invece, brindare alla memoria di quei morti. Allora non aveva fatto confusione. Ma chi si ricorda cos'è successo ad Avola? Io non posso dire di ricordare, ma il problema è che, fino a pochi mesi fa, non ero nemmeno a conoscenza di quel che era accaduto. E' stato un film ad aprire uno spiraglio: Il grande sogno, di Michele Placido con Luca Argentero, Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca. Film di poco conto, ma che ha avuto il merito di recuperare un episodio spiacevole della recente storia italiana: gli scioperi, finiti nel sangue, di Avola.
Era il 1968, dicembre. Per la cronaca, il governo Leone era dimissionario, Franco Restivo (siciliano, democristiano, morto nel 1976) era Ministro degli Interni, Sandro Pertini era neo presidente della camera, il sindaco avolese era Giuseppe Denaro, il prefetto si chiamava D'Urso e il questore Politi e dappertutto bolliva la protesta.
Gli agricoltori dell'area sud del siracusano, stanchi di essere sfruttati e presi in giro da chi si credeva più furbo di loro, avevano iniziato uno sciopero. Il divario tra i “poveri cristi” e i possidenti terrieri era, infatti, sempre più ampio. Così, i contadini cominciarono a chiedere, tra le altre cose, la revisione – al rialzo - dei salari e delle norme di collocamento, l'eliminazione del “caporale” e della “raccolta” della manodopera in piazza (più di 40 anni dopo, a Rosarno, ancora vigono le stesse condizioni, non è buffo?). Lo sciopero sembrava dover proseguire a oltranza - rischiando anche di far marcire i prodotti che la terra, in quel momento, stava dando – e non si vedeva all'orizzonte una possibilità di incontro tra le due parti.
I braccianti, quindi, bloccarono le strade e tutta la cittadinanza, il 2 dicembre - donne e bambini compresi - passò dalla loro parte. Senonché, la polizia – a dare i rinforzi era arrivato anche un reparto della celere da Catania - ricevette l'ordine di caricare e lo fece con dei fumogeni che gli si ritorsero contro: non avendo calcolato da che parte soffiasse il vento – forse avrebbero dovuto vederla anche in senso metaforico, questa cosa – il fumo arrivò loro addosso e li fece diventare oggetto di una sassaiola. I militari risposero alle pietre con le pallottole, sparando indistintamente su donne, bambini, vecchi, uomini. Uccisero due braccianti, ne ferirono quarantotto. Solo dopo tale sacrificio, il contratto fu firmato e le richieste dei braccianti accolte.
Cinque giorni dopo, alla prima della Scala per Sant'Ambrogio, alcuni manifestanti scagliarono uova contro le sciure milanesi e mostrarono loro un cartello: “I braccianti di Avola vi augurano buon divertimento”. Poco gliene fregò allora e poco gliene frega adesso, anzi ancora meno. Quasi nessuno, infatti, si ricorda più di tale increscioso episodio della storia italiana, fatto cadere volontariamente nel dimenticatoio insieme, solo per fare un esempio, ai fatti di Reggio Calabria del settanta, unica città d'Italia in cui entrarono i carri armati dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Forse ha ragione Venditti: ogni bicchiere di Nero d'Avola intenso, corposo e rosso sangue dovrebbe farci pensare a quei caduti in una guerra che non ha vinto nessuno. E che nessuno ha pagato, se non chi è morto. A proposito, si chiamavano Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona e avevano 47 e 25 anni.
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