L'ostacolo di Rosamunddi Margaret Drabble
Rosamund, figlia di una famiglia di intellettuali di sinistra dell’alta borghesia, a sua volta studiosa di letteratura elisabettiana, non si trova a suo agio nell’atmosfera di libertà sessuale che si comincia a respirare a Londra. Di ritorno da Cambridge e in possesso del bell’appartamento di famiglia in una zona residenziale della città (i genitori sono andati per un paio d’anni in Africa a “fare del bene”), cerca di trovare un modo per vivere in questa società mutevole cui non sente di appartenere. Sta con due ragazzi contemporaneamente, a ciascuno dicendo di avere rapporti sessuali con l’altro, in tal modo riuscendo a non andare a letto con nessuno e a non fare la figura della retrograda.Uscendo una sera per caso con George, un ragazzo che forse le piace davvero, ci finisce a letto e rimane incinta. Cosa fare? Tenere il bambino? Da sola? Come donna non sposata? Il libro è una sorta di auto-confessione; raccontato in prima persona, è il percorso di una ragazza attraverso le sue incapacità di lasciarsi coinvolgere, o forse la sua volontà di sottrarsi a quanto si pensa sia obbligatorio per una donna. Ma non è solo questo. Educata a considerarsi privilegiata (e lo è non solo in senso economico-sociale, ma anche per la sua intelligenza e la sua bellezza) e quindi a sentirsi in colpa verso tutti coloro che hanno meno, lotta sempre con se stessa per essere giusta e buona, secondo principi rigidissimi. Con la nascita di Octavia, gran parte di queste convinzioni salteranno o saranno messe in discussione. Perché improvvisamente la realtà entra con prepotenza nella sua vita, obbligandola a fare i conti con riserve limitate di forze e illimitate di emozioni, con un mondo, come quello medico, a cui deve affidare la figlia e che risponde a regole proprie, insomma, a fare i conti con un’esistenza non più autosufficiente.
Pubblicato per la prima volta nel 1965, il romanzo di Margaret Drabble racconta la storia di una ragazza single che rimane incinta e decide di tenere il bambino e crescerlo da sola. Ma non è un libro sulla rivoluzione sessuale, l’illegittimità o la Londra degli anni ’60. Si tratta piuttosto di una storia senza tempo che rivela la straordinaria potenza della maternità, che riesce a cambiare le donne ben oltre ogni loro immaginazione.
Un estratto:
Quando Hamish e io ci amammo per un anno intero senza fare l’amore, non compresi di aver modellato definitivamente la mia esistenza. Si potrebbero trovare infinite ragioni della nostra astinenza – paura, virtù, ignoranza, perversione – ma resta il fatto che lo schema Hamish sarebbe stato ripetuto all’infinito, e con velocità crescente e mancanza di profondità crescente, così che l’idea dell’amore in me finì praticamente lo stesso giorno in cui cominciò. Niente ha successo quanto il successo, dicono, e certamente niente fallisce quanto il fallimento. Io ho avuto successo nel mio lavoro, quindi presumo che fosse troppo sperare in altri successi. (…) I miei tentativi in ogni campo, al di fuori del lavoro, sono invariabilmente abortiti. Il mio tentativo di aborto, per esempio, deve essere una rappresentazione abbastanza classica di qualcosa di me, se non di altro.
Quando, qualche anno dopo l’episodio con Hamish, io scoprii di essere incinta, passai attraverso stadi di incredulità e shock appena più profondi del solito, per ragioni che senza dubbio non potrò trattenermi dal riferire: non c’era nessuno a cui dirlo, nessuno a cui chiedere, così ancora una volta mi trovavo costretta a fare riferimento alle esperienze vagamente riportate dagli amici e alle informazioni raggranellate durante gli anni dei romanzetti. (…) Così mi tenni tutto per me, e pensai che almeno avrei cercato di cavarmela da sola. Mi ci volle un po’ di tempo per chiamare a raccolta il coraggio: rimasi seduta per un giorno intero dentro al British Museum, sgomenta per la paura, a fissare con sguardo vacuo le pagine aperte di Samuel Daniel, pensando al gin. Avevo vaghe informazioni sul gin, sapevo che doveva avere un qualche effetto sull’utero, per via del chinino o cose simili, e che abbinato a un bagno caldo a volte funzionava, così decisi che se l’avevano fatto altre ragazze potevo farlo anche io. Magari avrei avuto fortuna. Non avevo idea della dose di gin necessaria, ma temevo che si trattasse di una bottiglia intera: questa prospettiva mi turbava e da un punto di vista fisico e da un punto di vista finanziario. Mi scocciava dover spendere due sterline per una bottiglia di gin, solo per sentirmi male. (…)
All’epoca vivevo in un appartamento dei miei genitori, che rappresentava in modo pericolosamente distorto il mio status. I miei genitori erano andati in Africa per un paio di anni; mio padre era entrato in una nuova università come professore di economia, per metterli sulla giusta strada. Lui dal canto suo era sulla giusta strada, altrimenti non lo avrebbero invitato. I miei genitori avevano preso quell’appartamento in affitto per quindici anni, e avevano detto che intanto che erano via avrei potuto tenerlo io, il che era gentile da parte loro visto che avrebbero potuto subaffittarlo cavandoci un bel po’ di soldi. Però erano fortemente contrari alla proprietà, e non volevano esserne coinvolti se non con sofferenza e sacrificio: quindi il loro atteggiamento non era dettato da pura gentilezza, ma almeno in parte dal desiderio egoistico di non sentirsi in colpa. (…) I miei genitori non mi aiutavano affatto, a parte il concedermi la casa a titolo gratuito, anche se avrebbero potuto permettersi di farlo: ma erano fautori dell’indipendenza. Mi avevano inculcato l’idea dell’autosufficienza con tanta forza che la dipendenza mi appariva come un peccato mortale. Una donna emancipata, ecco cos’ero: con una bottiglia di gin in mano aprivo la porta di casa mia con la mia chiave.
Titolo originale: The MillstoneAutore: Margaret Drabble
Traduttore: Marina MorpurgoEditore: AstoriaPagine: 248Isbn: 9788896919415Prezzo: €16,00Data di pubblicazione: 19 Settembre 2012