Si chiamava Aylan Kurdi, 3 anni. Il bambino curdo-siriano morto annegato di cui gira la foto nel web e sulla carta stampata di tutto il mondo (o quasi). Lo sapete che sono morti anche suo fratello Galip e la madre Rihan?
Io avevo condiviso la foto di Aylan nella mia bacheca Facebook. Quel corpicino. Nell’osservare la foto vengono i brividi: sembra quasi addormentato. Sembra stanco. Sembra voler finalmente riposare un po’ dopo aver lottato nell’acqua, contro l’acqua.
Ma dopo poco, ho tolto quella foto: non volevo usare Aylan per mettere a posto la mia coscienza e quella di altri, dando spazio in una bacheca Facebook ai likes e alle frasi di circostanza. Ho tolto quella foto perché condividerla non lo riporta in vita, non gli dà giustizia, non salverà altri bambini-e, non salverà altre vite. Non serve a queste persone. Loro, delle nostre condivisioni di foto e delle frasi di circostanza possono fare a meno.
Quella foto serve solo a NOI. Al nostro occidentalissimo “spettacolo del dolore”: vediamo le stragi delle guerre, corpi maciullati e massacrati, teste mozzate, sangue… fiumi di sangue, litri di sangue. E barconi di immigrati: disidratati, annientati, retti in vita da poche speranze. E corpi annegati. Qua e là. In alto mare. O sulla riva. Come il corpo di Aylan.
“Ma quella foto va condivisa, diffusa: il mondo deve sapere!” mi dicono.
Ah sì? Il mondo deve sapere? E cosa deve sapere che non sa già?
Che i bambini muoiono massacrati nelle loro terre o affogati in mare?
Che le persone vivono in guerra, mentre noi ci preoccupiamo se piove o c’è il sole?
Se non vediamo e soppesiamo e valutiamo bene in ogni particolare il corpo di uno o di migliaia di Aylan, noi non sappiamo che schifo è la guerra?
La guerra ha ucciso Aylan. E, probabilmente, anche noi abbiamo contribuito.
Poi. Certo. Possiamo pure scrivere “Aylan è mio figlio”. Così magari ci sentiamo meglio, così diamo una lavata alla nostra anima, a quella roba che si chiama coscienza. Una lavata e via.
Mettiamo un like. Messo? Okay, abbiamo fatto il nostro dovere di spettatori del dolore.
E ora via. Andiamo a berci un caffè.
Aylan, perdonaci…
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