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AZIENDE ITALIANE IN CRISI: l'unica soluzione è esportare all'estero
Creato il 15 luglio 2014 da Robertoborz
Imprese: è ancora emergenza. La condizione di molte aziende è ancora critica: il 31,5% si trova in una fase di ridimensionamento, il 52,1% di stazionarietà, il 16,4% è in crescita. E il saldo occupazionale degli ultimi anni è stato certamente negativo: il 33,6% delle aziende ha diminuito i livelli occupazionali, il 20,2% li ha aumentati e il 46,2% li ha mantenuti invariati. Ma il dato più rilevante è che una buona parte del tessuto produttivo ha avviato processi di riorganizzazione che hanno messo al centro la valorizzazione delle competenze dei lavoratori. È la fotografia che emerge dall’indagine del Censis realizzata per il Ministero del lavoro e delle politiche sociali per individuare le reazioni delle imprese italiane alla crisi. La ristrutturazione nascosta. Solo il 21,4% delle aziende con oltre 20 addetti è rimasto inerte, ma la maggioranza, pari al 78,6%, ha cercato di intervenire con iniziative di innovazione strutturale, con la creazione di nuovi prodotti e servizi (49,1%) o l’introduzione di nuove tecnologie funzionali al miglioramento dei processi di lavoro (45,1%). Il 38,9% si è concentrato sul miglioramento dei canali di vendita e di comunicazione, il 34,3% sull’ingresso in nuovi mercati territoriali, il 32,4% sul miglioramento della funzione finanziaria. Innovare il portafoglio di competenze. I tentativi di innovazione si sono accompagnati in molti casi all’avvio di un processo di ristrutturazione aziendale, spesso doloroso. Il 37,3% delle imprese ha espresso l’esigenza di adeguare il proprio portafoglio di competenze al cambiamento. Si tratta di una minoranza di aziende che hanno dovuto ricercare sul mercato competenze nuove, che prima non esistevano (nel 20,8% dei casi) o che negli anni erano diventate obsolete (17,4%). Tra i nuovi profili richiesti dalle aziende spiccano i commerciali (dagli export manager agli agenti di commercio, ricercati dal 36,4% di queste imprese), i tecnici (32,4%), gli amministrativi (31,4%) e gli ingegneri (25,4%). Da segnalare anche l’elevata richiesta di esperti di comunicazione e nuovi media (ricercati dal 12,2%) e di informatici, sistemisti e programmatori (10,1%). Formazione e riqualificazione del personale. Si registra anche una discreta attenzione per la formazione e l’aggiornamento professionale. Un quarto delle aziende (26,9%) è ricorso a interventi di riconversione del personale, due terzi (66,4%) hanno promosso attività interne di aggiornamento e formazione: il 36,2% tramite formatori o consulenti che hanno organizzato attività interne, il 23,8% con la partecipazione a fiere, il 20% tramite scambi con fornitori e clienti. Ma la «manutenzione del capitale umano» in tempi di crisi resta difficile. Se si esclude infatti un terzo delle imprese (il 36,7%, per lo più di grandi dimensioni) che considerano l’aggiornamento del personale un fattore centrale, la maggioranza sa che l’impegno su questo fronte non è adeguato: per il 28,4% l’azienda dovrebbe fare di più, il 34,9% è cosciente di non fare nulla su questo fronte. La riforma dell’apprendistato permette oggi alle aziende di fruire di un ventaglio più esteso di profili da acquisire: pur prevalendo i giudizi positivi (77,7%), permangono però forti resistenze all’utilizzo (solo il 14,6% delle imprese interpellate ha utilizzato tale strumento). Valorizzare le competenze anche tramite una nuova organizzazione. L’inserimento di nuove risorse in sostituzione delle vecchie o il ricorso a competenze esterne più specialistiche, utili a supportare il cambiamento, si sono accompagnati all’ottimizzazione dell’organizzazione, con il reengineering dei processi lavorativi (38%), la riorganizzazione dei gruppi di lavoro (31,7%), la revisione dei turni e degli orari (26,5%), la ridefinizione del sistema di valutazione e dei meccanismi premiali (28%). Le resistenze interne del personale hanno condizionato in molti casi (54%) l’avvio dei nuovi processi. E le valutazioni dei risultati finora raggiunti non sono del tutto positive: solo il 25,6% degli imprenditori è pienamente soddisfatto, mentre la maggioranza (52,1%) dà un giudizio di sufficienza e il 22,3% non si ritiene ancora contento. Difensive, espansive, internazionalizzate: le molteplici facce della ristrutturazione. Da un lato, emerge una logica di tipo difensivo da parte di quelle aziende che vivono una fase di ridimensionamento e per le quali la riorganizzazione rappresenta l’ultima chance di sopravvivenza. In questo caso l’intervento sul fronte organizzativo è drastico, con tagli al personale (48,7%), riduzione di orari, riqualificazione e riconversione delle figure professionali esistenti (30,9%). Sono quelle aziende in cui gli esiti appaiono al momento più incerti, a detta degli stessi imprenditori: il 37,4% giudica i risultati ancora non soddisfacenti, se non deludenti. All’estremo opposto, vi è invece un modello di riorganizzazione aziendale che segue una logica molto più spinta e aggressiva, che riguarda però solo l’8% delle aziende. In questo caso la riorganizzazione segue un percorso di forte innovazione nel rapporto con il mercato, nella definizione dei prodotti e dei processi, nell’applicazione delle tecnologie. In queste realtà l’occupazione cresce. Il 75% di esse ha inserito nuove professionalità in azienda negli ultimi tre anni e il 53% ha dovuto acquisire nuove competenze di cui prima non disponeva. Emerge con chiarezza la forte spinta data all’innovazione dall’avvio dei processi di internazionalizzazione. Le aziende presenti all’estero con propri prodotti, stabilimenti e punti vendita (il 43,7% delle imprese interpellate) sono quelle che presentano i più alti livelli di innovazione. L’inserimento di nuove professionalità (46,5%), la riqualificazione del personale (34,6%), ma anche l’esternalizzazione di funzioni che prima venivano svolte internamente (20,3%) e l’uscita di professionalità non più utili (39,7%), sono stati i cardini del loro intervento.