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ba7ebbik awi ya masr

Creato il 25 febbraio 2011 da Claudsinthesky

Sai che ho penato per te, amore mio: è stata dura essere così impotente mentre ti vedevo abusata maltrattata distrutta dileggiata saccheggiata sfregiata, ma l’importante è che tu abbia vinto e stia bene. Finalmente libera.

ba7ebbik awi ya masr… Questo sì che è stato un San Valentino da ricordare!

“Un San Valentino rosso bianco e nero”

Ci sono momenti nelle vicende mondiali che chiedono la sospensione dell’incredulità. In questi frangenti, la cautela dovrebbe essere soppressa e il cinismo dimenticato per far risuonare la gioia e la meraviglia. In tutto il mondo chiunque, o almeno chiunque abbia un cuore, sa che la rivoluzione egiziana del 2011 è un momento del genere. Prima del 25 gennaio, data delle proteste di massa che hanno dato il via alla quindicina rivoluzionaria al Cairo e altre città, l’Egitto era solo un altro Paese popoloso e impoverito che travagliava sotto un regime autocratico la cui polizia lavorava assiduamente per mantenere il dissenso ai margini della vita civica. Era un luogo in cui le istituzioni, politiche, economiche e religiose, diffondevano gli antichi toccasana della tirannia aggiornati per un’epoca globalizzata: i “saggi” sono destinati a comandare e il resto a essere comandati. Le speranze di pochi fortunati possono realizzarsi attraverso i canali designati, ma il resto sono destinate a morire. La resistenza è inutile, e chi se ne intende scommette che uno non dovrebbe neppure prendersi il disturbo di sognare. Come dicono con fare ammonitorio  gli egiziani, e gli egiziani hanno un detto per tutto, “Ishtiri dimaghak” – letteralmente, riacquistate il vostro cervello. Oggi, però, milioni, se non miliardi, di menti sono sul mercato aperto, poiché le brulicanti moltitudini di Tahrir Square sono la palpitante riprova della possibilità umana. Nessun dittatore è troppo forte da scalzare per il potere del popolo, non importa quanto brutale sia la sua gendarmeria o quanto votato alla continuità sia il suo protettore esterno. Forse questa speranza non aveva bisogno di essere riportata in vita, ma le schiere di egiziani che chiedono la  democrazia l’hanno liberata dalla sua gabbia. E quello, non le dimissioni forzate di Hosni Mubarak dalla presidenza l’11 febbraio, è il loro atto rivoluzionario. La storia, ovviamente, è disseminata di rivoluzioni interrotte, deviate, rubate e tradite. Il regime di cui Hosni Mubarak era l’odiato volto non è assolutamente scomparso, e vi è ragione sufficiente di credere che rimanga semplicemente in attesa che il tumulto si plachi. 

Nei primi giorni della rivolta, il Vice Presidente Omar Suleiman e il suo entourage hanno fatto un voltafaccia nei confronti del ministro dell’Interno e di alcuni collaboratori del figlio di Mubarak, Gamal, incolpandoli sulla stampa delle percosse inflitte alla folla cairota mentre attraversava i ponti sul Nilo il 25  gennaio e dell’infelice carica della brigata a dorso di cammello sui rivoluzionari il 2 febbraio. Il ministro dell’Interno, è stato detto sui media di Stato, aveva decisamente oltrepassato i limiti delle istruzioni ricevute per proteggere Tahrir Square dall’avanzata dei contestatori. (Senza dubbio, la sua vera colpa è stata non averlo fatto.) Mustafa al-Fiqqi, un parlamentare del partito di governo il cui distretto di Damanhour ha conosciuto criminalità sponsorizzata dal regime in abbondanza nei giorni delle passate elezioni, ha affermato di possedere informazioni sul fatto che i ricchi amici di Gamal avevano assunto e pagato essi stessi gli assalitori a dorso di cammello. Figure particolarmente odiate tra i capitalisti clientelari – Hussain Salim, che vende il gas naturale egiziano a Israele, e Ahmed Ezz, che ha inghiottito e privatizzato le acciaierie del settore pubblico del Paese – sono stati abbandonati a far da capro espiatorio.

La stessa tattica sembra evidente nel più dettagliato dei resoconti delle ultime ore di Mubarak al potere, pubblicato il 12 febbraio dalla Associated Press: il rifiuto dell’ottuagenario ex-presidente a lasciare è attribuito a Gamal, oltre a degli “assistenti di alto livello” di cui non si conosce il nome, che pare abbiano nascosto al capo la piena portata dell’agitazione popolare e lo abbiano persuaso in più di un’occasione a rivedere un discorso di dimissioni . Nei canali d’informazione online in lingua araba si specula di discussioni straordinarie all’interno del palazzo presidenziale che avrebbero coinvolto i vari membri della famiglia Mubarak. Con questa narrazione, l’esercito e presumibilmente anche l’”alto funzionario egiziano” che ha parlato con il reporter di AP erano ansiosi di vedere Mubarak abbandonare molto prima di quanto abbia fatto. Si dice che gli alti ufficiali credessero, come pure la Casa Bianca, che si sarebbe dimesso il 10 febbraio. Dopo il discorso di Mubarak di quella sera, in cui prometteva vagamente di cedere parte dei suoi poteri a Suleiman, ma per il resto di portare a termine il suo mandato fino a settembre, la mano dell’esercito è stata infine forzata. Un altro resoconto, apparso sul quotidiano di Beirut al-Safir, sostiene che alla fine Mubarak non si sia opposto alle richieste dell’esercito. Alcune parti di ciascuna storia potrebbero essere esatte e, dati gli interessi personali del manipolo di persone che conoscono l’esatto corso degli eventi, la verità potrebbe non essere mai conosciuta per intero. È tuttavia significativo che le circostanze dell’allontanamento finale di Mubarak abbiano permesso la riabilitazione immediata della reputazione dell’esercito, che era rimasto a guardare mentre i fantini sui cammelli attaccavano al Cairo e squadre di picchiatori meno pittoresche si dispiegavano altrove. In tutto il paese, oltre 300 persone sono morte, quasi tutte per mano della polizia e dei suoi lacchè, dopo che i carri armati sono avanzati fuori dalle basi e nelle strade. L’esercito non era un attore neutrale che a malincuore ha deciso di prendere una posizione: ha cambiato bandiera quando era evidente che Mubarak non poteva vincere. Per ora l’Egitto è governato da un Consiglio supremo militare, il quale con il primo comunicato ha annunciato che il consiglio era in seduta pubblica e con il quarto ha sciolto il Parlamento e sospeso la Costituzione. L’esercito dice che il suo dominio è temporaneo, e che non durerà più di sei mesi, entro i quali si terranno le elezioni. Il Primo Ministro ad interim nominato da Mubarak, Ahmed Shafiq, insiste sul fatto che i piani dell’esercito sono trasparenti. Suleiman, l’uomo che è apparso sulla televisione di Stato a dichiarare finita la presidenza di Mubarak, è scomparso dalla scena, almeno per il momento. Nel frattempo, un altro alto funzionario corrotto, Anas al-Fiqqi, è stato posto agli arresti domiciliari per aver ordinato la propaganda xenofoba e avulsa dalla realtà che ha prevalso sulla TV e la radio di Stato dal 28 gennaio fino a poco prima della fine del regno di Mubarak. Non c’è alcuna garanzia, in altre parole, che la rivoluzione egiziana procederà al di là del fare di membri selezionati del regime dei capri espiatori e dell’auto-inserimento dell’esercito nelle decisioni di Stato. Già l’11 febbraio, un tweet aveva sintetizzato la potenziale corruzione del possibile: “Congratulations, Egypt! Don’t let the military entrench itself. Love, Pakistan.” (Congratulazioni, Egitto! Non lasciare le forze armate trincerarsi. Baci, il Pakistan). 

Ma è ancora troppo presto per cedere al pessimismo dell’intelletto. Ora è tempo di festeggiare l’ottimismo della volontà.

Il segno più positivo per il futuro dell’Egitto è l’assoluta tenacia della protesta collettiva che ha obbligato il cambio al vertice. Il 25 gennaio, che si presume la prossima generazione di egiziani non conoscerà come la Giornata della Polizia, i manifestanti hanno sconfitto la minaccia della violenza, sotto forma di polizia anti-sommossa armata di manganelli che cercava di impedire loro di attraversare i ponti sul Nilo che portano in Tahrir Square. Il 28 gennaio, la folla ha fugato i potenti miti del languore e dell’apatia egiziani, trasformando il loro “giorno della collera”, in una rivolta veramente pan-egiziana. Il 2 febbraio, i rivoluzionari si sono dimostrati incuranti della reale violenza, assorbendo i colpi dei teppisti e rispondendo. Il 10 febbraio, come il 28 gennaio e altri giorni, hanno dimostrato di essere immuni alle lusinghe del  regime, respingendo le mezze misure di Mubarak. Non sono stati fuorviati dall’allarmismo del regime sul “vuoto costituzionale” che avrebbe inghiottito l’Egitto intero se il presidente si fosse ritirato prima della data prevista; il regime, dopotutto, aveva riscritto questo documento per dare al suo dominio senza fine una patina di legalità. Forse la cosa più stimolante è stato il loro fermo rifiuto della vecchia logica dell’ishtiri dimaghak. Il regime ha provato l’impossibile per convincere i rivoluzionari che il tempo non era dalla loro parte. L’altra massa degli egiziani seduti a casa si sarebbe stancata del blocco del principale incrocio della capitale, della chiusura di banche e scuole, della scarsità di generi di prima necessità nei negozi. I genitori dei manifestanti dovrebbero proprio richiamare a casa i ragazzi, osservava sarcasticamente Suleiman. Questi trucchi, a malapena astuti ma comunque insidiosi, avevano già placato il malcontento tante volte, distraendo gli egiziani dal loro nemico principale e rivoltandoli gli uni contro gli altri. Non nel 2011 – come ha brillantemente replicato il dirigente di Google e blogger di protesta Wael Ghoneim, se Suleiman pensa che gli egiziani non siano pronti per la democrazia dovrebbe lasciarli fare pratica.

Il vivace scenario di Tahrir Square, spesso, e forse in maniera fuorviante, paragonato a un carnevale, ha raccolto la maggior parte della copertura mediatica e, quindi, la maggior parte del merito per la decisione del regime di disfarsi di Mubarak, ma l’Egitto è stato in rivolta su tutto il territorio nazionale: il 10 febbraio e nei giorni precedenti ci sono state enormi marce ad Alessandria, nelle città del Canale di Suez, nei centri del Delta, nei paesi dell’Alto Egitto e persino nell’oasi di Kharga, nel vasto Deserto Occidentale, i cittadini hanno affrontato la polizia. Nelle aziende di tutto il Paese i lavoratori hanno scioperato, alcuni in segno di esplicita solidarietà con i rivoluzionari e le loro richieste, altri facendo pressioni anche per il miglioramento delle loro condizioni materiali. Nelle settimane e nei mesi a venire, si scoprirà molto di più circa il ruolo delle province egiziane nello spingere il regime a fare concessioni.

La dichiarazione della legge marziale del 13 febbraio è preoccupante per le ragioni già addotte: potrebbe semplicemente sostituire la legge d’emergenza in vigore in Egitto dall’assassinio di Anwar al-Sadat nel 1981, legge che è stata usata per schiacciare 30 anni di aspirazioni democratiche. Ma il provvedimento dell’esercito illustra anche la famosa citazione da Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza.”¹ Su imbeccata, la sera stessa un forum di associazioni egiziane per i diritti umani ha pubblicato una “tabella di marcia per una nazione di diritti e lo stato di diritto”, concentrandosi sulla regola del governo a guida civile e chiedendo il suo ripristino al più presto. Qui gli attivisti hanno riecheggiato gli slogan uditi nelle strade dopo che l’esercito si fece vedere: “Madaniyya! Madaniyya! Mish ‘ayizin al-’askariyya!” (Civili! Civili! Non vogliamo i militari!).

Un altro segnale incoraggiante viene dalla Tunisia, dove l’insieme originario dei rivoluzionari del 2011 ha resistito contro grandi difficoltà quasi un mese dopo l’abdicazione di Zine el-Abidine Ben Ali. Sembra che i residuati del regime di Ben Ali abbiano colto l’occasione della caduta di Mubarak, quando i riflettori dei media erano puntati su Il Cairo, per invertire alcune delle loro promesse di riforma. Tale revanscismo non è sorprendente e dovrebbe essere atteso anche in Egitto. I tunisini, comunque, non hanno sbaraccato e ripreso la via di casa: le strade della capitale sono simili a un grande salotto politico. Come ha riferito Issandr El Amrani sull’abudhabino The National, gruppi itineranti di cittadini hanno fisicamente occupato gli uffici del partito-apparato di sorveglianza di Ben Ali per negare alle sue diramazioni un posto in cui ricostituirsi. Come in Egitto, la rivoluzione sta nella perseveranza della lotta, nella determinazione non solo a provare speranza, ma ad agire secondo essa.

A prescindere da cosa accada al fermento degli egiziani, il loro è un momento rivoluzionario, il primo vero momento rivoluzionario del XXI secolo insieme a quello dei tunisini. Nessun colore a misura di media per questa rivolta a favore della democrazia, le cui immagini simboliche sono le bandiere egiziane rosse bianche e nere dipinte sulle guance di bambine e bambini seduti sulle spalle dei loro padri in mezzo alla folla. Nessun afflusso di denaro dalle fondazioni che promuovono la democrazia e dai think tank dell’Occidente. Assolutamente nessun rapporto con alcuna “dottrina” di Washington. Nessuna campagna di marketing progettata da agenzie pubblicitarie a livello mondiale. Quant’è deliziosamente appropriato che proprio il mondo arabo, regione a lungo demonizzata per la sua mancanza di politica partecipativa, debba fornire questi veri modelli dal basso affinché gli altri li emulino!

Oggi gli storici si stanno attaccando all’equivalente giusto nelle passate rivoluzioni che predirà la traiettoria dell’Egitto, ma questa analisi immediata preclude la possibilità che gli egiziani si siano risvegliati con i loro cori democratici e, dopo tutto, nessuno aveva previsto che l’avrebbero sollevata così radicalmente e così presto. L’Egitto è sui generis: merita, e in effetti esige, di essere compreso e apprezzato nei suoi stessi termini e per i suoi pregi. I cronisti delle future sommosse popolari potrebbero confrontarle con quanto hanno creato gli egiziani nei primi mesi del 2011. Qualunque sia il suo corso, la rivoluzione del popolo egiziano è un dono grande e bello fatto al mondo.

¹ traduzione di R. Solmi: Tesi di filosofia della storia in: Walter Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, Torino, 1940, Giulio Einaudi editore.

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La versione originale di questo articolo, Red-White-and-Black Valentine, a cura dei redattori del Middle East Report Online è uscito qui il 14 febbraio 2011.

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