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La trama (con parole mie): Anna e suo figlio di otto anni, fuggiti alla violenza del marito della donna, vengono trasferiti in un complesso residenziale che dovrebbe tutelare la loro incolumità ma che non fa che amplificare le inquietudini della giovane madre, che per sentirsi più tranquilla e soddisfare gli assistenti sociali che vorrebbero per lei ed il bambino la ripresa della normale routine quotidiana acquista un babycall per monitorarlo anche durante la notte.
Proprio l'apparecchio pare intercettare lamenti provenienti da qualche parte nel palazzo che paiono essere espressione di episodi come quelli che loro stessi hanno vissuto: Anna, sconvolta e spaventata, cerca rifugio e comprensione in Helge, commesso del negozio dove ha acquistato la trasmittente, mentre il piccolo Anders decide di aiutare il suo coetaneo oggetto dei maltrattamenti.
Ormai è nota a tutti gli avventori del Saloon la simpatia che il sottoscritto prova nei confronti della fino ad un paio d'anni fa pressochè ignorata Norvegia: da quando nella mia vita di lettore sono entrati Jo Nesbo ed il suo Harry Hole, infatti, la terra dei fiordi è divenuta una sorta di rivelazione della quale subisco inesorabilmente il fascino.
Sull'onda di questo sentimento, non troppo tempo fa avevo recuperato Naboer, pellicola dalle nostre parti praticamente sconosciuta che si rifaceva alla scuola del thriller di Polanski e che, nonostante evidenti limiti, non mi aveva deluso completamente: non è stato il caso di questo mediocre Babycall, firmato peraltro dallo stesso regista del titolo appena citato, Pal Sletaune.
Come nel suo lavoro precedente, l'attenzione alle influenze della mente non solo sulla nostra vita ma sulla stessa realtà è centrale, e finisce per collocare questo titolo e la sua protagonista Anna - interpretata da una Noomi Rapace che si da da fare il più possibile, ma che trovo decisamente più adatta ai ruoli d'azione - nello stesso genere che ha visto negli anni la produzione di cose riuscite come Il sesto senso ed altre assolutamente trascurabili come il recente Dream house.
Peccato che la tensione che l'uomo dietro la macchina da presa cerca di costruire quasi senza requie sfruttando la disperazione e lo smarrimento della protagonista, l'inquietudine suscitata dai bambini, i dubbi dello spettatore e la location decisamente grigia e triste - in grado di riportare alla mente i casermoni di Lasciami entrare -, amplificata dalle ipotesi che si moltiplicano con il passare dei minuti rispetto al destino che attende Anna ed Anders sia completamente ed inesorabilmente rovinata da un finale che tende a giustificare ogni avvenimento precedente con una facilità eccessiva, tanto da ricordare al sottoscritto lo sfogo di Kathy Bates in Misery non deve morire rispetto ai film a episodi distorti da un episodio all'altro quasi come se lo spettatore fosse uno stupido da circuire.
Probabilmente Sletaune non ha considerato la lezione dei grandi colpi di scena degli ultimi anni di Cinema - dal già citato Il sesto senso a I soliti sospetti, per non parlare di The prestige -, o forse - e sarebbe decisamente peggio - ha finito per sottovalutare il pubblico propinando un climax che dovrebbe risultare sconvolgente ma che, di contro, demolisce fondamentalmente tutti i passaggi dello script che fino alla rivelazione conclusiva potevano funzionare almeno per alimentare dubbi e supposizioni: un errore imperdonabile che trasforma di fatto un film senza infamia e senza lode assolutamente guardabile per una serata "di tensione" in una presunta sofisticata presa per il culo in grado di irritare e non poco chiunque abbia fatto un pò più di attenzione a trama e temi del titolo stesso.
E proprio rispetto a questi ultimi il peccato è doppio, dato che la violenza domestica risulta una problematica sempre di grande attualità in grado di essere sfruttata sia in ambito thriller/horror - quello che Sletaune pare prediligere, e torniamo al precedente e già segnalato Naboer - che sociale, di fatto amplificando l'eventuale portata autoriale di una proposta assolutamente di genere come questa.
Al contrario, con i titoli di coda a scorrere su una vicenda risolta frettolosamente e in malo modo, la sensazione è soltanto quella dell'ennesima pellicola - e regista - le cui ambizioni non risultano assolutamente all'altezza del talento espresso.
MrFord
"I hear voices in my head
they council me
they understand
they tell me things that I will do
they show me things I'll do to you
they talk to me, they talk to me."Rev Theory - "Voices" -
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