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Da Povna @povna
La 'povna è tornata. Con la testa piena di immagini, di osservazioni antropologiche, di scheletri nell'armadio e di fantasmi del passato. Ha passato gli ultimi cinque giorni - oltre che in una festa molto, molto bella, leggera di un'onda di felicità lieve (che ha visto tutti i partecipanti ballare fino a una notte così fonda che era già quasi l'alba, fuori e dentro la piscina) - a riflettere e a osservare. Perché non si organizza impunemente una rimpatriata dei venti anni (come hanno fatto Ninfa e Acchiappanumeri) senza suscitare dal fondo della pentola ricordi strani. E infatti le parole che le pizzicano per le mani sono tante, ma nessuna prende (ancora, o per chi sa quanto) la forma di un racconto compiuto. Decide allora di recuperarle dai meandri di cartelle, in un vecchio file. Fu scritto al tempo in cui l'Acchiappanumeri, per un periodo, fu ospite a casa della 'povna, in un agosto che oramai sono passati dodici anni: lui dava gli ultimi tocchi alla sua tesi in matematica, la 'povna finiva il libro. Furono giornate di lavoro folle, e grandi chiacchierate, e notti di gin tonic. 
Dopo, con l'autunno, la sceneggiatura prese una piega sghemba e la 'povna provò quasi quasi a raccontarla. In una storia che - parola più, parola meno - fa così:
Prova generale
Dove abito io non piove. Il cielo piange catinelle come fossero gavettoni. Al principio dell'autunno l'acqua si mescola al guano degli storni e l'effetto non è sempre piacevole. C'è una piazza, alla periferia del centro, che ha nel mezzo una corona di pini larghi. (C'è chi ha detto - nel tempo - che non esistevano nemmeno). Sotto questi pini che non esistono d'estate (estate lontana, estate di lavoro, estate di ansia e di rinuncia, e di parole affastellate su parole, estate di …) si radunano bambini e vecchiette, ognuno al suo posto. Respirano l'odore di finto mare e raccolgono pinoli, raccontano la storia di una città diversa, seduti sulle panchine sotto un pino che non c'è.
È difficile non notare l'arrivo dell'autunno nella piazza senza pini. Vanno via le vecchiette, nelle case: ritornano ad aspettare bambini che han bisogno di mangiare sano e di compiti da fare. 
Ma il cielo cambia colore (e non bastano le archeologie delle due del pomeriggio). E la pioggia diventa catinella, la catinella gavettone, il gavettone umido addosso. Umido d'autunno. E sotto i pini che non esistono della piazza senza pini non rimane anima viva. Perché a quel punto le anime preferiscono vociare al di sopra delle cime di quei pini inesistenti. Arrivano in gruppo, gli storni a stormo, verso le sei di sera. Li senti gli stridi anche attraverso le finestre che tuo malgrado cominci a tenere chiuse perché il freddo comincia a diventare vero freddo. Disegnano figure nel cielo di settembre e poi si posano sopra il pino che non c'è. (Devi ricordarti, allora, di non lasciare più lì sotto la bici, che si traveste con l'acqua e col guano degli storni e la mattina dopo non la riconosci più).
La gente della piazza si rianima dentro una petizione per togliere gli storni. Il comune risponde con più turni di pulizia per lavare lo sporco sotto i pini inesistenti. (Posso togliere - con una petizione - l'arrivo dell'autunno? Posso lavare - con più turni - il ricordo di un'estate che non c'è?).
Quest'estate, sotto i pini inesistenti di quella piazza alla periferia del centro ho visto un uomo alla T.V. Poco prima - andavo in bici - avevo notato un gruppo di persone vicino al busto di quel tale anarchico, convergevano alla spicciolata verso la piazza senza pini. Animazione insolita nell'atmosfera da mare cittadino in mezzo agli aghi e ai pinoli. Niente bambini e niente vecchi. E poco dopo, in casa (non un rumore, non un grido dalle finestre per un mese sempre aperte) guardavo quell'uomo che parlava alla T.V. Ricordava con puntiglio l'impossibile esistenza di quei pini inesistenti. Ricordava nuovamente una storia raccontata e mai vissuta. Ricordava momenti di gloria e di battaglia, ridisegnava una geografia diversa e impossibile per quella piazza che non c’è. E le immagini passavano col commento lontano di quella voce dentro la piazza e fuori campo. "Un milione di posti di lavoro e un milione di treni (e di ombrelli) per andare a urlare contro quei posti (quelli davvero inesistenti). Slogan scanditi con la tosse sotto l'androne di una biblioteca illustre. Nemici che diventano compagni, bici di corsa, seduti sulla canna, stando attenti a non perdere una buca (per non alterare - è ovvio - la godibilità del manufatto). Un esilio volontario nella città degli esuli, e da Parigi tutti incitavamo convinti «Armiamoci e partite», alla carica, e intanto, per non perdere esperienza, dedichiamoci convinti a contrabbandare film. Non immemori di una gioiosa (e poi infausta) macchina da guerra ricercavamo impavidi soluzioni avvenieristiche, barattondole con prove generali di una velleitaria serietà…"
Con l'invio del fermo-immagine si è spenta la voce fuori campo. L'affollamento di persone se ne è andato dalla piazza. In quella piazza dove ora si trovano bambini e vecchietti, gli storni insieme a chicchi di pinolo, una scuola in rovina, e casa mia.
Ma che cosa voleva? Per chi parlava quell'uomo in mezzo alla piazza e alla T.V.? Racconta un'altra volta quella storia: falla rivivere, falla vivere per me.
Sento dei passi per le scale. Ma è impossibile (Gli eventi non accadono, non a me). E ridendo ho aperto la porta.

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