Balcani: dalle guerre alla pace (articolo integrale)

Creato il 06 novembre 2012 da Istanbulavrupa

(per chi non l’avesse ancora letto, lo inserisco integralmente sul blog: la versione originaria è sempre qui…)

“Pace, stabilità, prosperità”. In occasione del centenario delle guerre balcaniche, che dall’ottobre del 1912 all’agosto del 1913 videro l’Impero ottomano perdere la quasi totalità dei suoi territori europei a vantaggio degli stati di recente o nuova indipendenza della penisola (Grecia, Bulgaria, Montenegro, Serbia, Romania, Albania), il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoğlu ha proposto ai suoi omologhi del Processo di cooperazione dell’Europa sud-orientale (Seecp, nell’acronimo inglese) una serie di iniziative culturali e di incontri istituzionali di alto profilo per fare del 2012 “L’anno della pace balcanica nel XXI secolo”. Il Centro per la ricerca strategica del ministero degli esteri ha organizzato dei seminari itineranti in alcuni stati balcanici, numerose università turche dei simposi internazionali per esaminare le esperienze belliche di un secolo fa e i meccanismi di cooperazione più recenti; il 18 e 19 ottobre a Istanbul, invece, i ministri degli esteri di Albania, Bosnia, Macedonia e Montenegro (con rappresentanti di Kosovo e Serbia) si sono ritrovati insieme con Davutoğlu in un vertice politico seguito da una approfondita discussione accademica: “Dalle guerre balcaniche alla pace balcanica”, per riflettere sul passato di divisioni e per progettare un futuro comune.

L’incontro di Istanbul non ha avuto dirette conseguenze politiche: non sono state adottate misure concrete né un documento conclusivo, è più che altro servito ai ministri presenti – ma secondo il capo della diplomazia di Ankara anche gli assenti (Grecia, Bulgaria, Romania) sono convintamente coinvolti – per lanciare un messaggio simbolico, per ribadire un duplice obiettivo d’integrazione regionale ed euro-atlantica. Infatti, è uno dei grandi meriti della nuova Turchia, quella non più isolata ma aperta al mondo, di aver spinto per una nuova fase nei rapporti – politici, culturali ed economici – tra i vicini balcanici; dal giugno del 2009 e per un anno intero ha assicurato la presidenza della Seecp dandole nuovo slancio: come dimostra la dichiarazione di Istanbul (23 giugno 2010) in cui i 12 ministri degli esteri degli stati balcanici hanno rivendicato un destino condiviso di pace duratura, di stabilità, di sviluppo economico e sociale, nel pieno rispetto della democrazia e dei diritti umani. Visite di stato e iniziative di mediazione turche hanno reso per molti stati la pace e la prospettiva euro-atlantica più vicine: basti pensare alla formula capace di riannodare i rapporti frantumati – attraverso incontri trilaterali – tra Serbia, Bosnia e Croazia; oppure al viaggio del premier Erdoğan per accompagnare alla cerimonia di commemorazione del massacro di Srebrenica – nel quindicesimo anniversario del massacro, nel 2010 – il presidente bosniaco Silajdzic e il presidente serbo Tadic, dopo aver convinto la Serbia a scusarsi con formale risoluzione parlamentare.

Alla conferenza di Istanbul di qualche giorno fa, Davutoğlu non ha detto nulla di particolarmente nuovo: si è limitato a riproporre la sua visione per un futuro migliore nei Balcani – spalleggiato dai suoi colleghi – fatto di “appartenenza regionale e inclusività” (sono gli stati balcanici e non le potenze esterme a doverlo determinare), di “integrazione regionale” fondata sulla cooperazione culturale e la interdipendenza economica, di ingresso collettivo nelle istituzioni euro-atlantiche, di posizioni comuni nei grandi raggruppamenti internazionali politici ed economici (e la Turchia vuole fare da portavoce, ovviamente). Il suggerimento è anche quello di trarre ispirazione dai secoli precedenti di “pax ottomana – ripercorsi in un discorso introduttivo forse eccessivamente appassionato da parte del professor Kemal Karpat, decano degli storici turchi – “in cui le genti balcaniche vivevano in armonia, nel rispetto delle identità etniche e religiose di tutti”.

Lo aveva già fatto, Davutoğlu, nel suo celebre discorso di Sarajevo del 16 ottobre 2009, che portò la sua politica estera a essere definita “neo-ottomana”: perché rivendicò l’eredità ideale dell’Impero ottomano fatta d’integrazione multi-culturale e multi-religiosa, di apertura agli scambi e centralità nell’economia globale dell’epoca, di circolazione delle élites citando i casi del bosniaco Mehmed Sokolović divenuto il gran Vizir Mehmet Paša Sokollu e dell’albanese Mehmet Ali divenuto Khedive e fondatore dell’Egitto moderno. “Come il XVI secolo vide l’affermazione dei Balcani ottomani come centro della politica mondiale, renderemo in futuro i Balcani, il Caucaso e il Medio oriente di nuovo il centro della politica mondiale. Questo è l’obiettivo della politica estera turca: e lo conseguiremo!”

A quest’impostazione trionfalistica, solo il professor Eşref Kenan Rasidagic dell’università di Sarajevo – nelle successive sessioni accademiche – ha posto significative obiezioni: “la Turchia viene spesso percepita come una potenza non imparziale che favorisce sistematicamente i musulmani”, “gli ambienti secolari sono spaventati dai richiami alla storia ottomana”, “nonostante gli annunci l’impegno economico della Turchia è in molti paesi ancora troppo limitato”; mentre il professor Fatih Özbay dell’Università tecnica di Istanbul ha fornito qualche dato demoscopico dal Balkan Monitor: secondo il quale la percezione della Turchia come “paese amico” varia sensibilmente, dal 18% della Serbia all’80% della Macedonia (la collaborazione tra governi non impedisce l’antipatia di alcune opinioni pubbliche nazionali). La professoressa Birgül Demirtaş dell’università Tobb, invece, ha ripercorso tutte le iniziative della Turchia per promuovere la cooperazione nei Balcani: politiche, di cooperazione attraverso l’agenzia governativa Tika, di recupero del patrimonio storico ottomano con attività di restauro, di dialogo inter-religioso, culturali grazie ai numerosi centri Yunus Emre aperti negli ultimi due anni, trans-nazionali che coinvolgono università, ong e imprenditori; le cifre dell’interscambio, in effetti, si prestano a una duplice lettura: perché se è vero che il commercio tra la Turchia e gli stati balcanici si è moltiplicato dal 2002 ad oggi da circa 3 miliardi di dollari a più di 20, il volume d’affari rappresenta solo il 6% delle esportazioni e il 4 delle importazioni del paese anatolico.

Lo scetticismo degli analisti si è poi esteso alle prospettive di integrazione europea – in ogni caso diverse per ogni singolo paese – in questa fase di crisi non necessariamente reversibile. Dušan Reljić dell’Istituto tedesco per gli studi internazionali e per la sicurezza (Swp), ad esempio, ha proposto uno scenario alternativo: il processo di allargamento sembra essersi arrestato e gli investimenti diretti europei nei Balcani si sono dimezzati dopo il 2009, le élites locali ormai puntano – con viaggi ufficiali e iniziative imprenditoriali – sulla Cina per il credito, sulla Russia per l’energia, sull’India, sulla Turchia (che però ha rapporti sbilanciati: più della meta dell’interscambio è con la sola Bulgaria); mentre Othon Anastasakis della Oxford University ha delineato le differenti opzioni esistenti: l’autarchia politica ed economica che però nel mondo globalizzato non è sostenibile, maggor integrazione regionale così come propone la Turchia, l’integrazione euro-atlantica che è vista come una panacea ma non dipende esclusivamente dagli stati balcanici, una partnership con attori esterni slegata dal processo di riforme democratiche che invece l’Europa imporrebbe. Ma chi può spingere i paesi dell’Europa sud-orientale verso l’Ue? Può essere la Turchia il leader che rende possibile un nuovo ordine regionale, la pax balcanica cento anni dopo le guerre?

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