Balcani, un successo “made in UE”

Creato il 24 aprile 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Maria Serra

«The union and its forerunners have for over six decades contributed to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe (…) Through well-aimed efforts and by building up mutual confidence, historical enemies can become close partners (…) The fall of the Berlin Wall made EU membership possible for several Central and Eastern European countries, thereby opening a new era in European history. The division between East and West has to a large extent been brought to an end; democracy has been strengthened; many ethnically-based national conflicts have been settled».

C’è una dimensione del processo di costruzione dell’Unione Europea – spesso offuscata dalla crisi economica e finanziaria – che può essere considerata un autentico successo. Quella dimensione su cui essenzialmente si fonda il conferimento del Premio Nobel per la Pace dello scorso mese di ottobre e che, pur con le molteplici difficoltà che permangono in diversi aspetti strutturali, può rappresentare il punto di forza di un’Europa che non può – e non deve – essere ripiegata solo su se stessa, ma che può guardare fiduciosa alla propria proiezione nel mondo: si tratta del processo di integrazione dei Balcani, come messo in rilievo non solo dagli allargamenti del 2004 (Slovenia), del 2007 (Bulgaria e Romania) e da quello imminente (in luglio la Croazia diventerà il 28° Stato membro), ma anche da impensabili – fino a qualche anno fa – intese sul fronte della cooperazione bilaterale (si pensi a quelle tra Serbia e Bosnia Erzegovina relative alla collaborazione e allo scambio di informazioni e di documentazione concernente i crimini di guerra) e in un certo senso della reciproca legittimità (lì dove non si può parlare ancora di reale riconoscimento). Anche l’ultimo dei conflitti latenti all’interno del nostro Continente, quello cioè tra Serbia e Kosovo (che resta de facto un protettorato internazionale), sembra infatti essere giunto al giro di boa grazie al raggiungimento di un accordo sulla gestione comune delle aree di confine mediato dall’Unione Europea, la quale, al di là degli obiettivi strategici ed economici di breve e lungo periodo, ha saputo offrire i giusti incentivi per spingere le due parti a negoziare: l’avvio dei negoziati di adesione per una, la possibilità di formalizzare un accordo di associazione per l’altra. A conti fatti, se solo 15 anni fa la Penisola balcanica era dilaniata da conflitti – non solo e non tanto etnici – generati e amplificati dall’implosione dell’ex Jugoslavia – e a cui Bruxelles non era ancora culturalmente, politicamente e “tecnicamente” preparata – ad oggi, pur restando ancora molti nodi irrisolti, può non essere più considerata la “polveriera d’Europa”.

Reciproci vantaggi e strumenti - Se è vero che da un lato nemmeno i Balcani (soprattutto quelli Occidentali) sono stati negli ultimi anni immuni dal senso di sfiducia nei confronti delle Istituzioni europee (si pensi all’alto tasso di astensionismo registrato in Croazia in gennaio 2012 in occasione del referendum relativo alla ratifica del trattato di adesione e dell’elezione dei primi eurodeputati croati nei primi giorni di aprile o, ancora, alle manifestazioni di protesta degli ultranazionalisti serbi all’indomani dell’arresto di Ratko Mladić e della sentenza di assoluzione da parte del Tribunale Internazionale dell’Aja dei generali croati Ante Gotovina e Mladen Markač ), dall’altro è vero che i governi dei vari Paesi, pur con fasi alterne, hanno inseguito e stanno inseguendo il “sogno europeo”: questi sanno infatti bene che non vi sarà stabilità economica e sociale senza l’ingresso nell’UE e per raggiungere quest’obiettivo sono disponibili a “sacrificare” anche aspetti per così dire “identitari”: la Slovenia ha restituito i beni appartenenti alla minoranza italiana, la Croazia ha dovuto cedere all’istituzione di un arbitrato per la soluzione della controversia relativa alle delimitazione delle acque territoriali nella Baia di Pirano, la Romania ha dovuto fare molte concessioni alla minoranza ungherese, la Bulgaria è stata costretta fermare in parte la centrale nucleare di Kozlodouï, l’impianto più redditizio del Paese. Così anche la Serbia è stata indotta a rivedere il proprio atteggiamento nei confronti del Kosovo. Il flusso di finanziamenti in termini di aiuti umanitari e di emergenza (si ricordino soprattutto i programmi ECHO e PHARE), di assistenza finanziaria per lo sviluppo e per l’adeguamento all’acquis communautaire (l’ultimo dei quali è lo Strumento per l’Assistenza pre-accesso, IPA) e che sono emanazione del Processo di Associazione e Stabilizzazione (PSA) – a tutt’oggi la cornice principale dei rapporti tra UE e Balcani e schema per la cooperazione tra gli stessi Paesi balcanici –, è stato dal 2001 un autentico fiume in piena: da Bruxelles sono giunti oltre 10 miliardi di euro, a cui va aggiunto il contributo di 5,5 miliardi da parte della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS), nella convinzione che l’intervento simultaneo in settori fortemente interconnessi, quali la sicurezza, l’economia e lo sviluppo delle istituzioni democratiche – previa naturalmente istituzione di adeguati meccanismi di condizionalità che, in ottica funzionalista, non costituiscono altro che la griglia all’interno della quale i Paesi balcanici hanno dovuto progressivamente informarsi ai criteri europei [1] –, avrebbe dato maggiore stabilità all’intero Continente.

Processo di allargamento ai Balcani secondo la firma degli Accordi di Associazione

Probabilmente in nessun’altra area dentro e fuori i confini l’Unione Europea ha attivato l’intero spettro delle sue politiche e degli strumenti creati per la gestione delle relazioni esterne come fatto nella regione balcanica. Un aspetto, questo, dal profondo valore politico che ha permesso ai leader comunitari di imprimere alcuni importanti sviluppi istituzionali (come il passaggio di competenza del PSA dalla Direzione Generale Relazioni Esterne della Commissione europea alla Direzione Generale Allargamento), allineando maggiormente le idee e i meccanismi alle base delle politiche con la prassi di integrazione, e di concorrere, in estrema sintesi, ad acquistare credibilità come attore internazionale. Non a torto Javier Solana, Segretario Generale della NATO tra il 1995 e il 1999 ed Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune nel decennio successivo, sosteneva che “Per essere un soggetto influente ed autorevole anche lontano dai propri confini, l’UE deve dimostrare di poter fare la differenza anzitutto nel suo cortile di casa”.

Non solo democrazia. Gli obiettivi strategici – D’altra parte la cura del proprio cortile, che ha direttamente favorito la costruzione e il rafforzamento dei collegamenti tra Occidente ed Oriente (non solo quello europeo) in una realtà internazionale sempre più interconnessa, non ha fatto altro che rispondere ad alcuni più o meno espliciti obiettivi:

1) contenere la possibile influenza di una Russia che, nonostante non si sia eccessivamente opposta – o perlomeno non ha avuto i mezzi per farlo – al procedere del processo di integrazione comunitario e al crescente ruolo della NATO/Stati Uniti nella regione, continua a guardare ai Paesi balcanici con grande interesse certamente in ottica di affinità culturale, ma anche e soprattutto economica (e dunque di maggior accesso ai mercati mediterranei) e strategica. A ben vedere lo storico accordo tra Belgrado e Pristina dello scorso 22 aprile sull’amministrazione del Kosovo settentrionale potrebbe aprire una nuova stagione di relazioni russo-balcaniche e, dunque, russo-europee (e queste ultime non per forza in senso positivo, specialmente se si considera l’atteggiamento più rampante di Mosca con il procedere della realizzazione dell’Unione eurasiatica);

2) competere allo stesso tempo con il crescente ruolo che la Cina ha negli ultimi anni assunto nell’area: si pensi agli enormi investimenti che Pechino indirizza nel settore degli impianti marittimi croati e montenegrini – controllando di fatto il porto di Rejka –, all’ottenimento di appalti per la realizzazione di infrastrutture ferroviarie lungo il percorso del Corridoio 10 e sul Danubio serbo (tra cui il cosiddetto “ponte dell’amicizia serbo-cinese”), alla costruzione di centrali idroelettriche in Macedonia o, infine, al supporto di alcuni dei Paesi in questione (come la Romania) che ha offerto di difendere le posizioni della Cina a Bruxelles in cambio di più strette relazioni economiche e politiche;

3) garantire il controllo e il trasporto delle fonti di approvvigionamento energetico che provengono proprio dalla Russia e dall’Asia Centrale, dove la competizione con Mosca lascia il passo alla collaborazione se non proprio ad un’esigenza strutturale. Tramontato l’ambizioso progetto di diversificazione (il gasdotto Nabucco) che avrebbe convogliato 31 miliardi di metri cubi di metano azero, iracheno e iraniano attraverso la Turchia e buona parte dei Paesi balcanici allentando la morsa russa, avanzano i negoziati per la realizzazione di South Stream, i cui primi lavori dovrebbero iniziare nel prossimo mese di dicembre secondo quanto annunciato lo scorso 10 aprile dal Premier serbo Ivica Dačić, correndo lungo la Penisola balcanica e giungendo da un lato in Austria, dall’altro in Italia passando per la Grecia. Anche se di portata minore, resta in piedi il progetto del Gasdotto Trans-Adriatico (TAP) per il trasporto del gas dell’Asia Centrale attraverso Turchia-Grecia-Albania-Italia e il cui ultimo degli accordi per la definizione degli aspetti operativi è stato firmato a Roma lo scorso 22 aprile. Non solo gas da Russia e Azerbaijan: l’allargamento ai Paesi balcanici permette l’estrazione lo sfruttamento delle risorse già presenti nella regione – e non sufficientemente valorizzate durante gli anni dell’integrazione nel sistema economico del COMECON – come il petrolio e il gas rumeno, il carbon fossile bulgaro, la lignite albanese, nonché il potenziamento di quel reticolo idrico che farebbe della Penisola uno dei maggiori produttori di energia idroelettrica;

4) sviluppare una vera e propria “hard security policy” per garantire sia il mantenimento della pace “al di qua” dei Balcani, sia la sicurezza dei propri confini, giunti, al di là dei rapporti con la Russia, ormai a ridosso di aree – quelle mediorientali e caucasiche – caratterizzate da instabilità. Ben si vedrà non solo che gli allargamenti comunitari sono andati di pari passo con quelli dell’Alleanza Atlantica e che ulteriori adesioni a quest’ultime sono in corso di negoziazione (eccetto con la Serbia, con cui i meccanismi di dialogo sono ancora molto lenti), ma anche che si è proceduto con una certa rapidità nell’allargamento della NATO a Bulgaria e Romania (sede peraltro del sistema di difesa anti-missile fortemente voluto dall’Amministrazione Bush prima e da quella Obama poi) e, nonostante le numerose questioni aperte sul piano politico-istituzionale-amministrativo-giudiziario, a quello dell’UE. Sintomo, questo, che, com’è stato fatto notare, nei primi anni 2000 si sono forse prese decisioni che hanno tenuto conto di giudizi “generosi” sul livello di attuazione delle riforme previste, confidando in quelle condizionalità cui si accennava pocanzi come stimolo per un cambiamento.

Completamento e approfondimento, ma non solo. Le sfide – Sebbene i punti messi a segno siano molti, l’impegno dell’UE e dei Paesi balcanici non può in effetti ritenersi ancora concluso. Restano ancora numerose le zone d’ombra che non permettono una completa integrazione e che in questa sede è possibile delineare in maniera solo generica. Al di là del caso estremo della Bosnia Erzegovina all’interno della quale continuano a sussistere profonde fratture politiche e sociali (cosa che da un certo punto di vista ha sollecitato la firma dell’accordo di associazione), o, ancora della Macedonia (FYROM) con cui i negoziati di adesione sono fermi dal 2005 a causa sia delle dispute ancora aperte con Grecia e Bulgaria sia delle limitazioni alle libertà di espressione e al dialogo interetnico, emblematica è la situazione di Bulgaria e Romania: a queste è di fatto ancora inibito – soprattutto per volontà di Germania e Olanda – di accedere all’area di Schengen, cosa inizialmente prevista per marzo 2011. Il Consiglio dei Ministri dell’Interno e della Giustizia UE dello scorso 7 marzo ha nuovamente rimandato la questione alla fine del 2013. L’adozione di misure più efficaci – ancor più se attuate in presenza di una sostanziale stabilità politica che nessuno dei due Paesi in questo momento può vantare – per la lotta alla corruzione in ogni settore dell’amministrazione pubblica e, in particolare, in quello delle dogane al fine di prevenire e affrontare forme gravi di criminalità (quali il traffico di immigrati clandestini, tratta degli esseri umani e traffico di droga) è ancora un requisito imprescindibile.

Allo stesso tempo non si possono sottovalutare le paure e i disagi che l’allargamento proprio a questi due Paesi – se non anche agli altri dell’Europa Centrale e Orientale – ha prodotto all’interno dei cittadini della stessa Unione Europea. Mantenere lo slancio all’allargamento, garantendo l’approfondimento delle riforme specialmente in un momento di importanti cambiamenti di governance economica (e si auspica politica) e promuovendo il senso di cittadinanza europea, sono aspetti di uno stesso contesto e fondamentali per il proseguimento dell’azione politica ed internazionale dell’UE.

Ciò che emerge è, in effetti, non solo la naturale difficoltà – o quanto meno lentezza – da parte dei Paesi balcanici ad adeguarsi alle oltre 130mila pagine di acquis, ma anche la capacità stessa dell’Unione Europea di difendere e rafforzare i traguardi raggiunti. Quelli che vengono definiti “enlargement fatigue” e “capacità di assorbimento”, ossia la capacità di funzionare incorporando nuovi membri (e dunque con le relative necessità di riformare le Istituzioni e di adeguare gli strumenti di integrazione) sono due concetti che – anche in relazione alla crisi economica a cui inizialmente si accennava, nonché alle difficoltà di trovare un compromesso alle questioni di bilancio – hanno negli ultimi tempi hanno preso sempre più forma. L’evidente necessità di aggiornare la strategia di allargamento per superare le divisioni interne rimanenti, infine, non può non collegarsi al quadro della politica internazionale e al quadro di generale stabilità cui dovrebbe aspirare tutto il contesto mediterraneo, anche e soprattutto la sponda sud. Laddove un processo di allargamento alla Turchia dovesse richiedere ancora molti anni, è indubbio che proprio quest’ultima può rappresentare quanto meno un partner fondamentale per la riuscita di una completa integrazione (non solo e non tanto politica) del nostro cortile di casa. E che permetta poi di guardare oltre.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

[1] Gli Accordi di Associazione e Stabilizzazione (il cui nucleo originale è rappresentato dal CEFTA Agreement a cui aderirono nel 1992 i primi Paesi dell’Europa Centrale e Orientale e che hanno trovato definitiva consacrazione con il Consiglio europeo di Salonicco del 2003) impegnano i firmatari a completare in un periodo di transizione definito all’interno dell’accordo stesso, un’associazione formale con l’UE imperniata sulla graduale attuazione di un’area di libero scambio e sull’adozione di riforme che, basate sul rispetto dei principi democratici e sugli elementi centrali del mercato comune interno (dialogo politico, cooperazione regionale, libera circolazione di persone-merci-servizi-capitali, etc.), facilitino il raggiungimento degli standard europei.


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