Ecco perché anche se Ballata di un amore italiano, di Davide Longo, è un testo molto breve, la recensione non può constare solo di cento battute, non sarebbe equo. E ‘testo molto breve’ mi induce a tirare in ballo un altro aspetto di cui tener conto nelle recensioni: l’impaginazione. Sì, è una questione tecnica che probabilmente interessa a pochi, in teoria. Ma in pratica ogni lettore è condizionato dalla gabbia grafica nel suo percorso di affezione al testo.
Il nuovo libro di Longo è impaginato in maniera che eufemisticamente potremmo definire ‘ariosa’: margini larghi, corpo che è quantomeno 12, se non 12,5, e fastidiosissimi ‘a capo’ per due lettere di un verso, per cui alcuni righi sono composti da un’unica sillaba, giustificata a destra (esiste una meravigliosa opzione dei programmi di impaginazione che consente di ‘stringere’ la spaziatura per evitare questo monstrum grafico). Dunque, nonostante le sue centoundici pagine, il testo è breve (il libro non lo è).
Il punto di questo lungo preambolo è che la Ballata è un testo interessante, con delle belle trovate e ben scritto, ma non è un romanzo. Lo dice lo stesso autore, quando nella postfazione specifica la nascita teatrale del testo, il successivo ‘stiracchiamento’ per la radio e l’ulteriore rimpolpamento per la pubblicazione. Rimpolpamento che conferisce valore aggiunto, perché consiste nella proposta delle vicende delle comparse, e la tridimensionalità di ogni figurante è una delle sorprese più piacevoli del testo.
Ciò che è rimasto fermo nei traslochi mediatici della Ballata è il nucleo di riflessione sul doppio fondo delle vite, sul lato oscuro di facciate esageratamente lustre: nel libro la voce schizofrenica in rima della protagonista (che immagina di dialogare con suo fratello, un idiot savant emarginato dalla famiglia e dalla società) fa da controcanto, quasi da coro tragico in antitesi alla scena che si svolge sulla pista da ballo. Se i personaggi sono congelati in un presente apparentemente felice,
dell’adesso non importa una sega,
è il prima che conta, il prima che frega.
Il passato di ogni personaggio è svelato dal narratore, e si tratta sempre di divagazioni che trattano vicende tristi, storie di vita che non devono trasparire in un momento di festa, nel luogo di divertimento per antonomasia che è la balera.
Avendo in mente la copertina del libro e la colonna sonora rètro della serata descritta, l’impressione immediata nella lettura è quella delle foto in seppia, dei sorrisi congelati allo scatto della macchina fotografica che cattura allegria forzata e lo sforzo dei fotografati di dare di sé l’immagine più distesa da consegnare ai posteri, ai nipoti che sfoglieranno album polverosi illudendosi che siano i tempi ad essere peggiorati, e non è lo sforzo di mascherare la realtà ad essere venuto meno.
Pensando a Davide Longo insegnante di scrittura non si può evitare di scorgere lo scrivente al di là del libro, freddamente impegnato in esercizi creativi soprattutto negli inserti, con carattere diverso, su una nonna in volo verso Amsterdam con nipote precoce e arguta al seguito, vicenda senza alcuna connessione con la storia principale e quindi apparentemente pretestuosa e, ancora una volta, solo strumento di riempimento di altre pagine.
La mia obiezione è questa: se un testo è interessante, se in teatro ha trovato la sua strada e il suo successo, e se la trasposizione in radio è stata una esperienza gratificante per lo scrittore e per il pubblico di ascoltatori, perché forzare la mano e fare di un canovaccio un racconto, un romanzo breve, perché stiracchiare un testo per farlo adattare – corpo del testo dilatato, ampia spaziatura ecc. – alla forma del libro?
Io credo che l’eleganza grafica paghi ben più di aver superato – a fatica – le cento pagine. E, soprattutto, credo che all’autore dell’Uomo verticale si faccia un torto pubblicando come romanzo questo libro.
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