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Molti ritengono il suo ultimo recente sfogo su Twitter (“forse, come dite voi, non sono italiano. Gli africani non scaricherebbero mai un loro fratello. In questo noi negri, come ci chiamate, siamo anni luce avanti”) un attacco razzista al contrario e, quindi, un deciso autogol dopo le campagne moralistiche lanciate tempo addietro.
Credo, invece, che sia la conseguenza di un malessere interiore mai completamente esternato.
Mario è un ragazzo fortunato per il suo status di calciatore professionista, ma ha dovuto rinunciare sin dai primi anni di vita al suo naturale percorso familiare con le normali difficoltà legate ai disagi economoci e di salute, all'affido e alla mancata adozione.
Senza entrare in ambiti psicologici, il suo carattere è maturato non senza difficoltà e il suo talento ha elevato aspettative, ambizioni e rivalsa. Anche le rivendicazioni da parte delle sua famiglia naturale non hanno aiutato nella maturazione ed è normale che ciò abbia inciso nel percorso di crescita di un ragazzino innamorato del calcio, ma non del suo mondo.
Poi la notorietà ha fatto il resto: i primi soldi, i primi successi, le grandi potenzialità e soprattutto la auto-celebrazione. Proprio quest’ultima e l’ambiente vicino che non ha saputo smorzarla hanno creato la frattura più grossa con l'esterno.
Da lì si è sviluppata la “sindrome di Calimero” e quell'insano vittimismo lo ha reso più solitario, diffidente e convinto dell’invidia altrui, spingendolo verso un muro contro muro con il mondo circostante.
Gli insulti da stadio sono diventati per lui “buuu” razzisti, i compagni lo hanno osannato nelle vittorie e accusato nelle sconfitte e il popolo italiano, stanco di quella sua tipica indolenza, ha atteso l’ultima occasione prima di abbandonarlo definitivamente.
Poi Mario ha ampliato la voragine innalzando il muro dell’odio razziale. L’Italia, purtroppo, non è un Paese immune dal razzismo, ma gli italiani in Balotelli hanno visto - forse ingiustamente - solo un capro espiatorio per la sconfitta mondiale, come è capitato a molti prima di lui, e niente di più, mentre l’errore più grande è stato probabilmente commesso dall’allenatore e non per le formazioni schierate (inguardabili), ma per aver permesso che Mario potesse diventare con i suoi atteggiamenti un problema all’interno dello spogliatoio e quindi un alibi per tutti i personaggi coinvolti.
Tutti colpevoli, tutti assolti: come è normale che sia in un Paese tafazziano come il nostro. Il Mondiale a breve finirà e Mario tornerà a calcare i campi (in Italia?), ma il Calimero del calcio, senza immaginabili e sostanziali mutamenti, continuerà ad ampliare il suo isolamento e la colpa non potrà che essere sua e di chi dice di (non) amarlo per davvero.
Poco importa, la maglietta con su scritto "Why always me?" è sempre pronta ad essere indossata e mostrata al mondo con la solita indisponenza.
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