“Bambini bonsai” di Paolo Zanotti - Ponte alle Grazie - non convince il lettore
Definita “romanzo di formazione”, questa storia lo è anche, in parte. La prima etichetta che però mi sono sentita di affibbiare a Bambini bonsai – ché, si sa, l’ansia di incasellamento è dura da combattere – è quella di fantascienza. Il racconto inizia su uno sfondo che è facile riconoscere come post-apocalittico: agglomerati di costruzioni precarie, umanità dal corpo semirobotico, una anomala calura.
Se la fantascienza del secolo passato risentiva molto della tensione della guerra fredda e della costante percezione di un inevitabile conflitto atomico che avrebbe azzerato i progressi tecnologici, la molla della narrativa che oggi si proietta nel futuro è quella del cambiamento climatico. Così la calura opprimente, la scomparsa di ogni specie animale e l’attesa elettrica della pioggia, di un nuovo diluvio rifondatore, sono tutti segnali di questo nuovo motivo della narrativa apocalittica.
Le premesse erano buone, e lo stile di Zanotti è coinvolgente e impone un ritmo di lettura accelerato, scorrevole pur nella densità della scrittura. Eppure si avverte qualche stridio nell’ingranaggio narrativo. Il lettore ha la sensazione di non potersi completamente abbandonare alla storia, di non potersi permettere un trasporto incondizionato al seguito di Pepe, protagonista bambino di questo libro fatto di piccoli adulti. Troppe questioni appaiono non solo non spiegate nel testo, ma anche poco chiare nella costruzione di questo mondo distopico, e si ha l’impressione che non siano definite neanche nella mente dell’autore.
Come ci si può abbandonare agli eventi narrati se non ci si spiega quali siano le innovazioni tecnologiche nel futuro descritto? Se si osserva un mondo in declino, ma poi si apprende che le automobili continuano a viaggiare in città? E i documentari-natura, unica fonte di informazione sul mondo prima della scomparsa dei gabbiani, dove erano proiettati se la corrente elettrica è quasi del tutto assente? Perché i bambini vengono incubati, nella loro prima infanzia, in secchi (a parte che per creare un’area semantica acquatica culminante nella grande pioggia)?
Se poi il testo fosse stato davvero una descrizione del mondo devastato e privo di fauna, se avesse trovato il suo apice narrativo nell’esodo dei bambini dall’agglomerato alla città, allora avrebbe avuto uno sviluppo coerente. Invece Bambini bonsai contiene troppi spunti che appaiono slegati fra di loro: la formazione di Pepe, sì, ma anche la descrizione di una società di mezz’uomini che si avvicina a tratti alle tematiche del Signore delle mosche, e la comparsa di personaggi diafani, e di una casa sotto al mare, distesa acquatica ormai priva di vita e ridotta a ricettacolo di rifiuti.
La sospensione dell’incredulità del lettore è messa a dura prova, mentre tenta di aggrapparsi alla storia sperando di poterne essere affascinato, di farsi trascinare nuovamente nell’incanto narrativo. Ma quando la cerea Petronella si strappa e porge un dente porta-ricordi, allora la quantità di materiale eterogeneo da far forzatamente rientrare nel quadro narrativo diventa ingovernabile e l’incredulità è definitivamente andata. Peccato. Pensare che la prima suggestione era stata fortemente sudamericana, e l’arrivo dei balinesi nella baraccopoli faceva pensare agli zingari giunti a Macondo.Peccato, perché le prime pagine facevano pensare ad un bel resoconto della disfatta del genere umano, si sperava in qualcosa come L’uomo verticale, di Davide Longo.
Una gran quantità di materiale è una buona cosa, in letteratura, ma se gestita bene, dosata, integrata, trattata con estrema cautela. Peccato.