Bambini, nel tempo.

Da Desian
Le zuffe di bambini che mi ricordo io, per avervi partecipato direttamente o nel racconto di qualche coetaneo, erano piene di imprecazioni sguaiate; di grandi polveroni alzati, chissà perché, quasi sempre contro sole; di occhiali rotti e pallonate in faccia.
Urla, strepiti, spintoni.
Qualche volta avevano persino il sapore metallico di un po' di sangue per un labbro spaccato.
Eravamo bradi abitanti di una strada non ancora violentata dalle auto ma mai abbiamo visto un qualche adulto pararcisi incontro con aria minacciosa durante uno di quei match.
Non dico che fosse giusto o sbagliato, meglio o peggio di oggi.
Soltanto che ce la cavavamo da soli, che trovavamo vie di soluzione. Che in quelle ammucchiate nascevano o si rompevano grandi amicizie, si capivano concetti astrusi come solidarietà e tangibili bisogni come leccarsi le ferite (in senso figurato, il più delle volte) e tornare indietro un po' acciaccati ma tutti assieme. Insomma, mimavamo gli adulti senza sapere bene cosa andasse fatto. Ci sembrava, il mostrare i muscoli, emulazione di un'esistenza adulta che, ancora, ci sfuggiva.
Non capivamo bene in cosa consistesse quella volontà di potenza che stava nel diventare grandi. Crescevamo tirandoci i capelli.
Adesso che, finalmente, adulti siamo diventati. Che abbiamo sperimentato la nostra, individuale, volontà di potenza. Che ci siamo presi responsabilità che nessuno ci aveva così distesamente spiegato. Inventandoci un ruolo, cambiandone le regole peggiori o quelle che semplicemente non ci piacevano, adesso dicevo è come se ci fossimo dimenticati ogni cosa.
Proteggiamo i nostri figli da qualsiasi graffio. Qualche volta sembra persino che vogliamo difenderli dai loro stessi sentimenti, da certe emozioni. Ogni volta che cercano di scaricare quella immensa energia (che noi potevamo disperdere scapicollandoci per il mondo) li redarguiamo, li mettiamo a freno (come se non bastassero i muri altissimi che gli abbiamo costruito attorno): questo non si fa, così non ci si comporta. Non appena accennano, appunto, una zuffa di bambini, si scatena il finimondo.
Il nostro finimondo di adulti.
Di cosa abbiamo paura? Che cadano da un albero rotolando (e magari imparino a rialzarsi)? Che si spacchino un labbro?
Che si sbuccino un ginocchio.
E' un frusciare di gonne, e valgono per madri e per padri oramai, che si fanno minacciose, un "ricordati che devi morire" recitato come un mantra, una difesa piccolissimo-borghese di chissà quale rispettabilità. Di bambini?
E allora, spero un giorno, sinceramente, di veder tornare uno dei miei figli con un occhio pesto. Perché sarebbe molto più difficile spiegarglielo con le "chiacchiere" come ci si sente.
Forse sì, forse ci siamo dimenticati quel che siamo stati.
Anche noi, secoli fa siamo stati bambini.
Nel tempo e senza remore. Se non di crescere.

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