Ragazze che si prendono a spinte per avere l'onore di apparire, seminude, sulle copertine delle riviste per soli uomini; aumento di nightclub a luci rosse, emancipazione femminile coincidente con la tolleranza per immagini sempre più hard, con le quali identificarsi: è davvero scomparso, o almeno attenuato, il sessismo che denunciavano le femministe negli anni Settanta?
O non ci troviamo, piuttosto, di fronte ad una nuova ondata, più potente, perché apparentemente presentata come una forma della libertà delle donne, di discriminazione femminile? Dopo il successo e le polemiche che hanno accolto The new Feminism, pubblicato nel 1998, in cui l'autrice si diceva convinta che ormai la parità fosse un obiettivo facilmente raggiungibile, Natasha Walter torna a riflettere sui modelli e gli stereotipi di genere con cui le donne si trovano a fare i conti, miti maschili della bellezza femminile, patinata in figure di principesse superdotate o esplicitata in corpi provocanti e disponibili: sempre e comunque, bambole per il desiderio dell'altro.
Leggi la mia intervista a Natasha Walter!
*Le mie recensioni*Ancor prima di iniziare a parlare di questo saggio, occorre fare una precisazione circa ciò che s’intende col termine “femminismo”. La stessa Natasha Walter, infatti, nel 1998 pubblicava il saggio The New Feminism che spiegava il significato assunto ai giorni nostri da un termine che ai più apparirà desueto, anacronistico, in un certo senso persino “da bacchettoni”. Si tratta di una di quelle parole che più di altre si caricano di significati e valenze molteplici, spesso diverse tra loro, molte delle quali non hanno alcuna attinenza con il reale significato del termine. Oggi con il termine “femminismo” – o “nuovo femminismo”, dal momento che dagli anni Settanta sono fortunatamente cambiate moltissime cose, al punto che per molta gente questo movimento non ha più ragione d’esistere – spesso si identifica una minoranza di donne convinte di vivere in una società sostanzialmente fallocentrica, per le quali la lotta per i diritti coincide con la lotta contro gli uomini, accusati di relegare le donne in una posizione subordinata; per altri, ancora, le donne che si definiscono femministe altro non sono se non zitelle arrabbiate col mondo e incapaci di instaurare relazioni costruttive con l’altro sesso. Natasha Walter, giornalista e scrittrice inglese, nonché moderna femminista, e molte sue colleghe (Naomi Wolf e Arial Levy, per citarne alcune tra le più famose) ci dimostrano prima di tutto quanto antiquate ed errate siano queste concezioni di femminismo. Posto, infatti, che le donne negli ultimi decenni hanno fatto conquiste considerevoli, dal diritto di voto al quello all’aborto, passando per l’accesso a tutti i tipi di lavori, anche quelli tradizionalmente ritenuti maschili, fino a raggiungere realmente una parità di diritti con l’uomo, queste studiose mettono in evidenza come molto spesso però questi diritti siano tali solo sulla carta, perché nella realtà dei fatti e nella mentalità comune molto ancora deve essere fatto perché la parità tra uomini e donne si realizzi concretamente... (continua a leggere su La bottega di Hamlin)
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Qualcuno certamente storcerà il naso di fronte all’ennesimo saggio definito piuttosto superficialmente “femminista”, pensando che proprio non ce n’era bisogno, che le donne ormai la fantomatica parità l’hanno raggiunta da un pezzo e che anziché lamentarsi farebbero bene a tirarsi su le maniche e a darsi da fare come gli uomini fanno da sempre. Da attivista “femminista” (metto il termine tra virgolette perché proprio non mi piace, successivamente spiegherò il perché) e da sociologa che si occupa sempre più spesso di questioni femminili, cose del genere me le sento dire quasi ogni giorno. Perché in questa nostra società così tecnologica, così veloce e superficiale, dove apparenza e immagine sono l’essenza stessa del potere, reale o presunto che sia, ogni riflessione più profonda è nient’altro che una perdita di tempo, un fastidioso e opportunistico tentativo di sottrarsi all’ininterrotta produzione di merci, di senso, di significati funzionali a un regime capitalista che appunto non tollera perdite di tempo, perché il tempo è denaro, si sa. Il denaro conta, le menate intellettuali – per giunta pseudo-femministe – no. Per cui, che bisogno c’è di parlare ancora della condizione femminile? Che bisogno c’è di un altro saggio che in fondo ripete cose già dette? Sgomberando il campo da eventuali dubbi, avendo letto con attenzione il saggio Bambole viventi della giornalista e scrittrice inglese Natasha Walter, posso affermare che finora nessun saggio sul genere è stato mai scritto con la stessa chiarezza, e nessuna autrice ha saputo esporre così limpidamente tesi plausibili e al tempo stesso inquietanti, motivandole punto per punto, senza lasciare spazio a speculazioni superflue e a inutili retoriche “femministe”. A questo punto occorrerebbe forse fare una piccola digressione circa il reale significa del termine “femminismo”, tra i più abusati e spesso fraintesi. Ormai, infatti, questo termine ha assunto una molteplicità di significati, che vanno da una sorta di teoria sovversiva volta a stravolgere l’ordine sociale fondato sulla subordinazione del sesso femminile a quello maschile, all’idea nazional-popolare delle femministe viste come un gruppo di zitelle inacidite moralizzatrici dei costumi e incapaci di rapportarsi in maniera costruttiva con l’altro sesso... (continua a leggere su Sul Romanzo)
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