Magazine Economia
Proprio per questo motivo vorrei esporre in modo semplice il concetto, aiutandomi con dei grafici che mostrano le ‘curve della crisi‘. Le imprese in crisi che abbiamo visto o curato indipendentemente dal settore in cui operano mostrano notevoli similitudini nell’andamento delle principali voci di bilancio, le quali lasciano le impronte evidenti del virus che avanza e che si trasmette nel corpo dell’azienda. I numeri usati sono casuali ma realistici (rispetto a casi esaminati) e coerenti tra loro. Mostrano prima di tutto un’impresa che ancora nel 2008 ha il fatturato in crescita, indebitamento abbastanza elevato ma apparentemente sostenibile (questo è l’errore fondamentale nel caso di crisi), cashflow che finanzia circolante e parte degli investimenti. Nel 2009 arriva il forte calo della domanda e del fatturato, che nel nostro esempio è del 20% (molte PMI hanno subito cali ancora più forti). Il calo si arresta solo nel 2010 ma la ripresa (2011-2013) è lenta e non consente di ritornare ai volumi del 2008. L’indebitamento continua a crescere, anche dopo che siano stati fermati i nuovi investimenti, in parte a causa della dilatazione dei pagamenti che, come sappiamo bene oggi, in tempi di crisi diffusa rallentano, e in parte perché non vengono prese azioni drastiche e straordinarie per sostenere i cashflow.
Ora uno sguardo alle curve di andamento del MOL (EBITDA) e del cashflow al netto del pagamento di oneri finanziari. La prima curva gialla riflette l’enorme pressione sui margini che si esercita tipicamente per effetto del calo della domanda, dell’aumento del tasso di concorrenza, ma molto spesso anche per uno scarso controllo di gestione che insieme all’ansia di non perdere fatturato contribuisce alla contrazione violenta dei margini di profitto. La reazione è tipicamente tardiva (fine 2009) e l’aggressione alla struttura dei costi non ha sempre effetti immediati (in particolare per ciò che riguarda gli accordi sindacali di mobilità e CIG). Gli effetti di un piano d’azione sui costi per ricostituire margini si cominciano ad apprezzare solo a partire dalla seconda metà del 2010. Ora guardate la curva del cashflow che precipita velocemente ma rimane in territorio positivo sino al 2009 dando l’illusione che l’impresa possa sostenersi per il tempo necessario per ripristinare condizioni di economicità. Invece l’effetto del circolante, a cui si aggiunge il deflusso per il rimborso delle rate dei mutui e magari anche qualche riduzione dei fidi a breve portano il cashflow inesorabilmente in territorio negativo per almeno 3 anni. Ecco che con un ritardo di 18-24 mesi si verificano le tipiche condizioni dell’insolvenza che possono essere contrastate solo con a) immissioni di capitale b) vendita di asset (immobili, partecipazioni finanziarie…) o c) con l’affitto dell’azienda a chi i capitali li ha ma non intende certo metterli in un’impresa insolvente a pieno rischio fallimentare. Ed ora uno sguardo a tutte le curve sovrapposte, seppure usando due scale diverse, per uno sguardo d’insieme che descriva come siano diverse e traslate nel tempo: Il punto sollevato da alcuni commentatori è che i virus della crisi erano già presenti nel 2007, a causa dell’elevato indebitamento rispetto al capitale proprio, ma anche rispetto alla dimensione aziendale. Un’indebitamento che diventa letale nel caso di una contrazione prolungata di vendite e margini e di un ampliamento del circolante dovuto a pagamenti in ritardo o insoluti. Ed è esattamente ciò che è successo dalla fine del 2008 a oggi. Se queste curve possono essere fonte d’insegnamento per gli imprenditori, come spero, devono anche fare riflettere sul perché le banche abbiano incamerato dalla crisi delle PMI così tante sofferenze ‘a sorpresa’. Oggi è frequente sentire il sistema bancario si lamenta del costo (rettifiche su incagli e sofferenze) che ha dovuto pagare alla crisi per colpa delle imprese fallite, ma agli esperti di finanza aziendale non sfugge che la situazione di ‘potenziale’ crisi e vulnerabilità delle imprese poi fallite era presente già nel 2007 o forse prima, ma totalmente ignorata dal vizio delle banche di camminare in avanti con la testa girata all’indietro, cioè ai bilanci vecchi e dalla pigrizia di non simulare i flussi di cassa futuri. Il punto sollevato da chi, come il sottoscritto, segue le crisi d’impresa è che per riportare a galla la nostra impresa illiquida occorre arrivare almeno al 2013 e per arrivare così lontano serve aiuto dall’imprenditore ma anche dalle banche, che per riportare a casa i propri finanziamenti devono assumersi qualche rischio nel sostenere un piano di ristrutturazione. Per essere totalmente onesti con il sistema bancario lo stanno facendo in molti casi e in altrettanti casi si lamentano che i piani di ristrutturazione che gli vengono sottoposti sono fragili e di scarsa qualità. E questo è un altro problema. fontedi Fabio Bolognini
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