Premesso che chi scrive prova un’atavica repellenza nei confronti del death-metal e che piuttosto che ascoltarne un disco per intero preferirebbe gettarsi in una vasca di squali con addosso l’abito di bistecche crude che indossò Lady Gaga ai Grammy Awards, va detto che i Proud of That sono interpreti eccellenti del genere musicale che hanno scelto – evidentemente per vocazione – di eseguire. I gusti musicali personali non contano, conta come una band interpreta e modella la sua musica all’interno del sound per il quale ha optato. Il death-core, come lo chiamano i diretti interessati, è una roccaforte “isolata”, coi suoi parametri e le sue imposizioni interne, si trova in un inferno a parte. Ed è – oltre tutto – terribilmente faticosa da eseguire. Cantante e batterista sono delle specie di robot-atleti capaci di giocare d’azzardo col proprio fisico ogni volta che salgono sul palco.
Sì ok, diranno in molti, però non ci vuole niente a gridare in “growl” dentro a un microfono, a trapanare la doppia cassa tutto il tempo, a violentare le corde del basso e della chitarra come se fossero pezzi di legno che non provano alcun dolore, alcun sentimento. Vero. Per la maggior parte della popolazione sana di mente la buona musica è ben altro. Ma la chiave per leggere questa musica folle sta nel capire che fare “death metal” significa sostanzialmente profanare la musica stessa. Altro che il punk, che a confronto è un’aria di Verdi. Qui – che ci piaccia o no – si tratta di pura violenza, di collera allo stato brado, di vulcanici deliri vocali e strumentali. Proprio come nel caso dei brani dei Proud of That: “This is my personal revenge”, “Be Proud”, “Roses”, “We are proud of that”… Tutta roba che pesa come un macigno e che fa esplodere finestre, cervella e metronomo. Nata nel 2008, la band è composta da Alberto “Venus” (voce), Mattia “Mattitutupa” (batteria), Ivan “Pornosmoker” (basso) e Alex “Pavi” (chitarra). Registrano, sempre quell’anno, il primo EP – intitolato “We are Proud of That”- e poi nel 2011 l’album d’esordio “Revenge”, ai One Voice Studio, dove riescono a coagulare con maggior equilibrio il sound devastante inseguito sin dagli inizi prendendo spunto da entità malefiche come Whitechapel, Chelsea Grin e Carnifex. Il loro lavoro è una sorta di messa nera urlata che non lascia spazio al minimo tentennamento, tutto corre infuriato dal primo all’ultimo secondo in un tripudio delirante, dove l’utilizzo di tutti gli strumenti – “voce” inclusa – è estremizzato e portato oltre il limite della sopportazione. I brani, almeno all’orecchio dei profani, sono difficili da distinguersi l’uno dall’altro, salvo qualche breve bridge e, pare, i testi. Tutto è oscuro, denso, greve, belligerante, sfacciatamente omogeneo, straziante. Ma il death metal è proprio questo signori, per qualche strana ragione esiste e prosegue la sua corsa folle ed immutata ormai da anni. Ora, se concesso, il sottoscritto se ne torna ad ascoltare Beatles e Devendra Banhart.
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