Bang Bang Orangutang

Creato il 05 dicembre 2010 da Eraserhead
Un anno dopo Dag och natt (2004) Simon Staho arruola nuovamente Mikael Persbrandt per calarlo all’interno di un film che ricalca pedissequamente la pellicola di 365 giorni prima.
Questa volta l’attore svedese è un padre in carriera oberato dal lavoro di nome Åke che un giorno ritornando a casa investe il proprio figlio uccidendolo. Ecco, non so se intendete, un padre che uccide il figlio.
Tale premessa conferma le mie impressioni su questo regista: è un killer, uno che picchia durissimo, ma che non si adagia su una sorta di pornografia del dolore poiché le sue opere sono profonde, corpose, solide e recitate come dio comanda. Persbrandt, che a mio parere è il corrispettivo maschile dell’immensa interpretazione di Noomi Rapace in Daisy Diamond (2007), con i suoi cambi di registro eccellenti uniti ad una decisa espressività, veste i panni di un uomo con cui è facile empatizzare sebbene abbia commesso un errore atroce. Quando un attore si esprime su livelli alti è anche merito delle parole che gli vengono messe in bocca e più in generale dal film tout-court di cui adesso, bando alle ciance, è opportuno parlare.
Come Day and Night anche qui si ha un prologo che anticipa il finale perché vediamo Åke tumefatto sul sedile della propria auto. È proprio il primissimo fotogramma, e, cosa importante, è da solo, non ha nessuno al suo fianco. Altra cosa importante, anzi fondamentale, è che se ho detto all’inizio di una forte ripresa del film precedente è proprio perché si ha una medesima natura, anche Bang Bang Orangutang è colto, immortalato, catturato, da una e una sola sorgente visiva, esattamente la stessa: la cinepresa montata sul cruscotto di un’automobile. A onor del vero ci sono qua e là delle sequenza al di fuori della macchina, ma il cuore del film pulsa all’interno dell’abitacolo, e il nostro, di cuore, non può che gioirne.
A differenza dell’aspirante suicida Thomas, uomo meschino che aveva perso tutto molto prima del suo ultimo giro di giostra, Åke è una persona che perde anch’essa una buona fetta della sua esistenza (il figlio), ma che reagisce, lotta, ricomincia passando da manager a tassista umiliato da chiunque, aggrappandosi a dei valori come l’amore che vive in maniera quasi infantile. E così meschine sono le persone che gli stanno intorno come il capo menefreghista o la moglie che almeno inizialmente non vuole assumersi le colpe della disgrazia.
Alcune critiche sono state dirette al fatto che una pellicola che poggia le proprie basi su un evento così drammatico non abbia nei suoi personaggi un riflesso concreto della disperazione apparendo dunque irreale. In effetti non vedremo mai i protagonisti straziarsi dal dolore, tuttavia abbandonarsi a tali dolenti ostentazioni sarebbe stato facile nonché banale, invece Staho supera brillantemente il pericoloso tranello dell’ovvietà.
Già perché ottimamente coadiuvato dal solito Peter Asmussen intesse il film di ironia, l’unico vero antidoto contro ogni forma di autocompiacimento. Ovviamente non si tratta di comicità ma di tragicomicità, e allora diventa seriamente ridicolo Åke con la sua cotta adolescenziale nei confronti di una ragazzina in un rapporto che mostra tutta la sua inadeguatezza con la scena della discoteca. È ridicola la possessione di Åke come la sua perdita di dignità, ad ogni modo si tratta di una maniera come un’altra per cercare di dimenticare la moglie che lo ha allontanato. Quando infatti viene a sapere dell’aborto (per lui è un’altra morte questa volta causata indirettamente) abbandona il suo piccolo amore per riprendersi quello più, la piccola figlia Emma.
La bimba rappresenta la coscienza, la ragione, una morale che gli adulti hanno smarrito. Adorabile nel suo essere bambina eppure così matura, è la protagonista del finale che per una volta non è così negativo come beffardamente il regista ci aveva fatto credere con quell’incipit.
E lui, Staho, che per tutto il film si diverte a filtrare la pellicola seguendo il mood della storia e a rendere imponente un’anonima palazzina di periferia, dimostra di avere un po’ di pietà. E noi ringraziamo.

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