Il crollo della struttura del Rana Plaza ha ucciso quasi 400 persone e più di un migliaio sono rimaste ferite. Nelle ore precedenti alla tragedia del 24 aprile, i lavoratori avevano notato delle crepe nella struttura, ma, come hanno dichiarato i testimoni, i capi addetti alla produzione hanno comunque fatto entrare i lavoratori, assicurando che non sarebbe accaduto nulla. Secondo le testimonianze, lo stesso Sohel Rana, proprietario della struttura, avrebbe tranquillizzato gli operai. Ora si trova in stato di arresto dopo aver tentato la fuga dal paese. Oltre alle sue responsabilità, pesa il ruolo delle multinazionali presenti a Dacca. Con un fatturato che si aggira attorno ai 20 milioni di dollari, grandi marchi del settore tessile come Wal-Mart, Gap e H&M, sfruttano la manodopera più economica sul mercato. Meno di 40 dollari al mese, circa 30 euro, è il salario medio di un operaio tessile bangladese. Una catena di complicità, cementata dalla corruzione e dalla disperazione di uno dei paesi più poveri al mondo, condanna la popolazione a non poter godere delle garanzie basilari sul luogo di lavoro: lo scorso novembre, sempre a Dacca, un incendio ha distrutto una fabbrica della Tazreen Fashion, uccidendo più di cento persone. Anche quello stabilimento riforniva compagnie internazionali, incluse IKEA e Carrefour. Già prima della tragedia di Tazreen, un memorandum compilato dalle organizzazioni per i diritti dei lavoratori e da associazioni come Clean Clothes Campaign, è stato sottoposto all'attenzione dei grandi marchi dell'industria per richiedere un adeguamento delle condizioni lavorative all'interno degli stabilimenti, consapevoli che l'unico modo per poter sviluppare un miglioramento dipendesse dalla collaborazione tra "companies", proprietari locali e autorità. Tutti i marchi citati riservano un posto d'eccezione nella loro filosofia aziendale alla produzione "sostenibile", ma i fatti sono ben distanti da qualsiasi dichiarazione d'intenti. Il memorandum non è stato firmato da nessuna azienda, scaricando così tutti gli obblighi in materia di sicurezza sui responsabili locali e partecipando in minima parte alle politiche di controllo: le grandi compagnie hanno potuto così risparmiare almeno mezzo milione di dollari l'anno. Stando alle ultime dichiarazioni, Benetton ha ammesso di aver fatto un solo ed unico ordine nello stabilimento della New Wave Stylish Ltd, ma questa improvvisa presa di coscienza necessiterà di indagini più approfondite. L'economia del Bangladesh, nonostante i passi in avanti degli ultimi anni, vive sotto il ricatto delle industrie straniere che delocalizzano e sfruttano la manodopera a basso costo. La vita politica è strettamente legata a quote di partecipazione nelle aziende, sbarrando di fatto la possibilità di un percorso comune di cambiamento. Come ha dichiarato Brad Adams, direttore della sezione Asia per Human Rights Watch, fino a quando il governo bangladese non applicherà delle misure serie per sanzionare chi non permette condizioni di lavoro adeguate, si continuerà a pagare con la perdita di vite umane. (fonti: RYOT, Associated Press, Guardian, Human Rights Watch)
Se le foto degli indumenti con l'inconfondibile targhetta verde potevano lasciare spazio a perplessità, ora non ci sono più dubbi: la Benetton si riforniva dagli stabilimenti del Rana Plaza crollato pochi giorni fa a Dacca, capitale del Bangladesh. Un ordine completo e dettagliato, risalente a settembre 2012, è stato pubblicato dal sito abitipuliti.org. Guardando alle unità segnate nell'ordine in questione (più di 70.000 pezzi) non si trattava di un ordine dalle piccole dimensioni. Eppure l'azienda, pochi giorni fa, aveva smentito con un comunicato ufficiale qualsiasi coinvolgimento: "...i laboratori coinvolti nel palazzo di Dacca non collaborano in alcun modo con i marchi del gruppo Benetton".
Alessio MacFlynn
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