Cartellone pubblicitario della stagione 1
Parlando di Banshee, mi vengono in mente una serie di concetti:
a) i personaggi disfunzionali. Tutti.
b) la riscoperta della violenza come mezzo di comunicazione (sì, non scalpitate, ci arriviamo dopo)
c) il taglio fumettistico. Che c’è, per quanto sfumato. E si sente. Ed è un bene.
Creata da David Schickler, Jonathan Tropper per la rete televisiva Cinemax, prodotta da Alan Ball, che è il figuro che sta dietro la versione televisiva di True Blood.
Non è la HBO, ma c’era di che essere tranquilli.
Il risultato è soddisfacente e, come detto, fa riflettere. Anche se le due cose non sono direttamente collegate.
Il taglio fumettistico è evidente fin dalla locandina, che richiama un po’ certe campagne pubblicitarie o certi cartelloni dell’america rurale, anni Cinquanta, per quanto più stilizzati. A guardarla bene, al di là del lato drammatico, quella violenza che è tema dominante, mostrata dalla macchia di sangue, sembrerebbe una locandina pubblicitaria stile Hill Valley. Si cercano residenti.
Poi il nome: Banshee.
Che è lo spirito irlandese portatore di lutti. La Banshee ha l’aspetto di una donna cadaverica, ed emette un lamento sì tanto lugubre da terrorizzare, dietro la porta di casa della famiglia che protegge. Lo fa per piangere la imminente dipartita di uno dei componenti.
Ma qui siamo negli States, e la versione della banshee d’oltreoceano è una ragazza indiana uccisa, che cerca i suoi assassini. Lo scopriamo perché nel paesino omonimo, sede dell’azione, si svolge una fiera annuale in suo onore.
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Carrie Hopewell e Lucas Hood
Insomma, lutti e violenza, chiari fin dall’incipit. Che per la verità sembra già visto, per quanto ben girato. Un criminale in fuga, e si capisce subito che si tratta di criminalità di altissimo livello, farcita di mafiosi russi tatuati, ruba l’identità del nuovo e defunto sceriffo di Banshee, Lucas Hood, ricoprendo funzioni di tutore della legge, affrontando la criminalità organizzata della provincia e nel frattempo riallacciando i rapporti con la sua ex-compagna di scorrerie criminali, anch’ella dotata di nuova identità e nuova vita. Soprattutto c’è il fatto che lei gli deve la metà dell’ultimo bottino, un sacco pieno di diamanti.
Avvincente ma già visto. O per lo meno già sentito. Almeno all’inizio.
Poi diventa avvincente e basta. Banshee trova i suoi ritmi già al terzo episodio, in un crescendo armonico, fino al finale, che si distende, gettando i ponti per la prossima stagione.
Ho parlato di personaggi disfunzionali. E lo sono.
Tutti quanti indossano una maschera, o si vogliono sbarazzare di quella che hanno già.
Lucas Hood (Antony Starr) fa lo Sceriffo seguendo il codice criminale appreso in galera: la legge del taglione. Esempio: punisce uno stupratore rompendogli le ossa, letteralmente, sotto gli occhi attoniti della comunità. Si fa un nome e la nomea di quello tosto che non scherza.
E sì, ci sono Sceriffi selvaggi, negli States, che portano le armi (cit.). E le usano. Quando non sono impegnati a usare le mani.
Carrie Hopewell (Ivana Milicevic) fa la mamma, ma in realtà è una ladra super-professionista, in grado di stendere tre uomini da sola.
Kai Proctor (al centro) e gli indiani. Dietro, lo psycho con gli occhiali tondi.
Kai Proctor (Ulrich Tomsen) è il capo criminale di Banshee, indossava la maschera da amish. Rinnegato dalla sua comunità per i suoi interessi “mondani”, ora pratica il Kung Fu, facendo allenamento con l’uomo di legno come Bruce Lee, oltre a far divorare i suoi collaboratori dal suo rottweiler.
Job (Hoon Lee) fa travestitismo, è l’hacker che aiutava (e aiuta) Lucas e Carrie a fuggire dal padre di quest’ultima, capo-mafia ucraino che vuole massacrarli.
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Ma i personaggi non si fermano qui, sono moltissimi, e ben sfaccettati. Tutti a loro modo violenti o vittime di violenza.
La violenza, come anticipato all’inizio, è uno dei temi.
Mi verrebbe da fare un paragone con l’espressione dei nostri tempi. Ovvero se tale quantità e qualità di violenza, presente con dovizia di dettagli truci in ogni singolo episodio, sia dettata dalla particolare fase che ci troviamo a vivere. Tempi infelici, giustizia azzoppata o impotente, politica incapace. Si torna a un sistema di relazioni basiche, estreme, col paradosso aggiunto che è un ex-galeotto a portare equilibrio, avendo seppellito il tutore della legge ufficiale…
Il tema classico per lasciare un certo tipo di messaggio c’è: le autorità impotenti e/o disilluse vengono sostituite da una nuova forma di civilizzazione.
Cosa che piace allo spettatore. Lo Stato, e le sue espressioni, devono essere in difficoltà, per poter consentire all’eroe di turno di rifulgere.
Parliamo sempre di narrativa, eh.
Per quanto, qui ci sia questa sovrabbondanza di violenza che il passato da carcerato di Hood giustifica solo parzialmente.
Non credo sia esaltazione, è, ancora peggio forse, un nuovo way of life. Agghiacciante, se ci pensate, se tutto questo vien visto da una certa angolazione impertinente.
Se invece ci si limita a godersi il tutto come fiction, allora è perfetto. Funziona eccome.
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Da sinistra, il padre amish di Kai Proctor, il padre di Carrie, mafioso ucraino, e l’Albino, un sicario carcerato
E che sia fiction è evidente dalla caratterizzazione dei personaggi. Posseggono pochi tratti fondamentali, abilità di sopravvivenza o di lotta, soprattutto, e il loro carattere è delineato da una sfumatura principale, pur divertendosi gli autori a mantenere, per ognuno dei protagonisti, una certa ambiguità di fondo.
Tutti partono dal sottovalutare chi hanno di fronte, salvo poi scoprirlo nella maniera più brutale e teatrale possibile.
E così abbiamo:
i mafiosi russi
i ladri di diamanti
i mafiosi amish
i mafiosi indiani
e le autorità impalate
Tutti gruppi criminali super-cazzuti (a parte le autorità), che vantano nei loro ranghi sicari unici:
gli amish, oltre al leader biondo che mena come Ip Man, vantano un ragioniere con occhiali tondi e sguardo fisso da psicopatico, sembra innocuo fino a quando non si sente qualcuno urlare
i mafiosi indiani vantano Odette Yustman, che ti prende a colpi di tomahawk.
lo sceriffo è in grado di picchiare il campione mondiale di MMA, e quando era in carcere le buscava da un albino enorme e pelato, con gli occhi rossi.
Tutto condensato in questa cittadina, Banshee, ovvero in pochi set fissi. Tutti a picchiarsi selvaggiamente, nel tentativo di stabilire equilibri, e trovare un nuovo mezzo di espressione. Forza e Onore. Forse.
E dal lato narrativo, si può dire che funziona alla grande.
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