Il suo viaggio, di storica e critica, nella «factory» americana di Warhol e gli altri
«Hirst e gli altri, rovina dell’arte»
Barbara Rose
«La crisi economica? È fantastica. Rimarranno solo i veri artisti. Perché i veri artisti hanno la maledizione dell’arte e non hanno altra scelta». Barbara Rose parla con il sorriso sulle labbra, ma dice cose durissime. Soprattutto sugli artisti che non ama: «Koons, Hirst, Cattelan? Tutti sopravvalutati. Vogliono fare impressione, ma lo choc non dura nel tempo. I nipotini di Duchamp hanno rovinato l’arte. Basquiat? Vale davvero poco e il mercato è pieno di falsi. Per fortuna la storia e il tempo correggeranno tutto».
Un’opera di Basquiat
Barbara Rose, grande storica e critica d’arte, docente, scrittrice e curatore di mostre, ha un dono tutto speciale: quello di parlare con franchezza e di regalare in una conversazione un viaggio nella mitologia dell’arte. I suoi amici più cari erano Warhol, Rauschenberg, Frank Stella, Jasper Johns per fare solo qualche nome. «Avevamo vent’anni, non c’erano soldi e l’unico posto dove trovare qualcosa da mangiare era da Andy alla Factory o allo studio da Rauschenberg. Si viveva così, con allegria e pieni di speranze» racconta. La Rose è una giovanissima settantenne. Impossibile darle un’età precisa, inganna tutti con il fascino della parola e con gli occhi azzurri che sorridono sempre. Ed è una figura davvero unica: non soltanto è la più importante testimone e studiosa dei movimenti artistici americani, lei stessa è protagonista di quella stagione irripetibile (tra gli anni Sessanta e Settanta) che ha visto crescere e consolidarsi i grandi movimenti dell’arte «made in Usa».
Due esempi? Warhol l’ha filmata nel suo film The 13 Most Beautiful... e c’è una foto che la ritrae nuda mentre Jasper Johns le fa un calco di gesso. Lei scherza: «Pezzi delle mie gambe e braccia sono sparsi nei suoi quadri. Faccio parte delle più belle collezioni del mondo». La Rose è stata «dentro» la storia dell’arte con una passione e una libertà che non ha uguali e i suoi scritti hanno offerto una lettura fondamentale per comprendere e costruire una storia dell’arte che è storia del presente. Tra tutti vale ricordare il testo che ha scritto a soli 25 anni, L’arte americana del Novecento, che ha aperto la critica a un mondo fino ad allora pressoché sconosciuto: «Ho scoperto da poco una cosa incredibile: i soldi che quel libro ha fatto guadagnare all’editore sono andati alla Cia. Era tempo di guerra fredda e il volume, che aveva un finanziamento governativo, doveva servire a manifestare la grande potenza creativa degli Usa in confronto all’aridità della Russia».
Da poco ha pubblicato per ScheiwillerParadiso Americano, una raccolta di saggi «sull’arte e anti-arte» dal 1963 a oggi. Un volume che oltre ad essere l’appassionato racconto in presa diretta dei protagonisti dell’arte americana, è anche la storia di una irrefrenabile decadenza, di un vero e proprio declino. Con una sorpresa: da sostenitrice entusiasta degli artisti, fa autocritica e riconosce i limiti, gli eccessi di quel mondo che ha frequentato da vicino. Senza tanti giri di parole Barbara Rose accusa un sistema dell’arte senza più regole etiche che pensa soltanto al profitto: «Siamo in mano al marketing, nient’altro. Viviamo il tempo dei valori falsi confezionati per gente incolta e ignorante. Il problema è la distruzione totale del mercato dell’arte che non ha niente da fare con la qualità di un’opera. Oggi esiste solo la manipolazione del mercato controllata dalle case d’asta, ma ancor di più dalla pubblicità, dai libri e dai critici pagati, dalle feste mondane e dai musei. Sì, i musei sono il vero problema: certificano la qualità quando non c’e nient’altro che moda, scandalo e spettacolarizzazione. È il fast food dell’arte con il gusto di una pizza fredda».
«Ma l’arte americana non è del tutto morta: ho trovato enormi energie nuove dai giovani neri, latini e asiatici. L’arte vive di nuovo grazie al melting pot». Ma New York, aggiunge, non è più il centro del mondo: «Andare a New York oggi è come trovarsi con i resti di una festa». E si lascia andare a una battuta: «Ora a Manhattan ci sono meno artisti che a Todi». Per Barbara Rose anche in Europa non va tanto bene: «La crisi viene del fatto che i ricchi non hanno cultura e i colti non hanno soldi. Viviamo un mondo che non permette lo sviluppo del gusto. Oggi l’intelligenza, l’etica, l’estetica contano poco». Ne ha anche per i critici italiani: «Achille Bonito Oliva? Il suo problema è che si considera un artista. Per lui la più grande opera è solo se stesso. Francesco Bonami è molto legato alle logiche del marketing e capisce solo le regole del gioco. Germano Celant è il gioco». E salva soltanto Gillo Dorfles: «È stato il mio eroe. I suoi scritti sono ancora fondamentali per capire la decadenza del presente ».
La storica dell’arte è un fiume in piena: ricorda i giorni a Washington, dov’è nata e quando saltava la scuola per andare tutti i giorni alla National Gallery. Sognava di diventare pittrice («Ma ho smesso di dipingere quando ho visto i quadri di Frank Stella»); ricorda i suoi 15 anni a New York per conoscere gli artisti: «Bastava andare ai vernissage a Tenth Street o a Betty Parsons e c’erano tutti, sempre ubriachi e a caccia di ragazzine. Cosi ho incontrato de Kooning, Kline, Guston. E poi per pagarmi gli studi ho lavorato da Leo Castelli e così ho cominciato anche a scrivere. Avevo 22 anni». Una vita avventurosa nel nome dell’arte. Ma non solo. Tante anche le passioni d’amore: «Ho incontrato un ragazzo senza denti —racconta —. Era tutto sporco, con la barba lunga, un proto punk. Ma quando ho visto i suoi quadri neri ho capito che era un genio». Quel ragazzo era Frank Stella e diventerà suo marito.
Il secondo, per la precisione, visto che con questa donna tra amori e matrimoni il rischio è di perdersi. Per la cronaca, il terzo marito è stato Jerry Leiber (celebre autore di tutti i testi di Elvis Presley) che ha voluto sposare a Roma perché c’era Argan sindaco che ha celebrato il matrimonio. Tranquilli, scherza: «Il quarto e ultimo marito è anche il mio primo amore». E aggiunge: «Basta artisti, sono impossibili, ti uccidono, questo è un economista, anzi l’ultimo economista marxista rimasto negli Usa e si chiama Richard Du Boff. Eravamo proprio dei ragazzi quando ci siamo sposati ». Dopo 48 anni lo ha ritrovato casualmente durante un viaggio in treno. A Barbara Rose si illuminano gli occhi: «Si è avvicinato e mi ha detto: sei l’amore della mia vita. Ci risposeremo a Venezia. Non è una storia alla Calvino?».
Gianluigi Colin
02 aprile 2009